Affari&Finanza, 14 dicembre 2015
I problemi del Brasile, alle prese con una Mani Pulite e le Olimpiadi in arrivo
La fine del tunnel sembra essere ancora lontana e ormai la tempesta brasiliana cancella certezze sulla prima potenza dell’America Latina colpita da un declino politico, etico ed economico sempre più ingovernabile. Il Pil del Brasile quest’anno chiuderà in forte recessione -3,2%, con la disoccupazione in aumento (9%), la moneta svalutata (35% in un anno), l’inflazione in crescita oltre la soglia del 10%, e la sua presidente, Dilma Rousseff, assediata da una procedura di richiesta parlamentare di impeachment che si trascinerà per mesi. Da almeno vent’anni il Brasile non attraversava una crisi economica come quella attuale. Ma oggi la novità, e la pericolosità, delle difficoltà brasiliane è il loro essere frutto di circostanze molto diverse e convergenti. Tutto è iniziato con la diminuizione dei prezzi delle materie prime e con la contrazione della domanda cinese ma si è aggravato con gli scandali di corruzione – Petrobras su tutti – ed ora si rischia l’agonia per il discredito dei leader politici. Quando venne rieletta, alla fine dell’anno scorso, con un margine di consensi modesto nel ballottaggio contro il candidato dei socialdemocratici (Psdb), Aecio Neves, Dilma non avrebbe potuto immaginare scenari peggiori per il primo anno del suo secondo mandato presidenziale. Dalla formidabile crescita dell’inizio del nuovo secolo che ha sospinto il Brasile fra le prime sette economie del mondo al pantano senza vie d’uscita dell’oggi, Dilma rischia di passare alla Storia come il presidente meno amato dalla fine della dittatura militare, alla stregua di quel Fernando Collor che subì un impeachment a furor di popolo più di vent’anni fa (1992). Ma non solo per colpa sua. Le disgrazie di Dilma sono cominciate molto prima della rielezione con la rivolta delle classi medie contro gli sperperi dei mondiali di calcio, quando milioni di brasiliani sono scesi in piazza per chiedere più educazione, più sanità, più servizi invece che più stadi. In quella storia Dilma c’entrava poco. Il doppio appuntamento, Mondiali 2014 e Olimpiadi 2016, era un pallino del suo predecessore e padrino politico, Lula, che voleva così apporre il sigillo del successo internazionale alla rinascita del Brasile. Invece andò tutto storto, perfino la semifinale persa con umiliazione (7 a 1) contro la Germania. Ma il peggio doveva arrivare – e qui iniziano le responsabilità di Dilma – perché se la crisi dei prezzi delle materie prime (ferro, petrolio e soia) era prevista, il botto dello scandalo Petrobras non se lo immaginava, protagonisti a parte, nessuno. Con la scoperta delle tangenti Petrobras il Brasile ha pagato un prezzo molto maggiore rispetto a quello, tutto sommato contenibile, di una crisi ciclica. Con l’operazione Lava Jato (autolavaggio) dei giudici di Curitiba i proprietari delle maggiori imprese del Paese sono finiti in galera accusati di aver pagato tangenti ai funzionari di Petrobras, l’holding petrolifera, a cambio di commesse sui lavori pubblici. L’ultimo, Octavio Marques de Acevedo, supercapo di una grande ditta di costruzioni, Andrade Gutierrez, ha appena accettato di pagare una multa da 250 milioni di euro come risarcimento allo Stato. De Acevedo pagò tangenti per ottenere i contratti di costruzione di tre stadi di calcio dei Mondiali, raffinerie e ferrovie. Non è il primo tra i grandi industriali che sceglie la linea dell’accordo con i giudici, multa più informazioni su altri coinvolti, soprattutto per evitare il fallimento dell’azienda. Con Petrobras la macchina delle commesse statali s’è inceppata moltiplicando l’effetto della crisi. Un altro aspetto non secondario è la frenata del mercato interno, che insieme alle esportazioni di ferro, petrolio, e agroalimentare, aveva sostenuto dopo il 2002 la crescita. La nuova classe media brasiliana, gli ex poveri usciti dalla miseria grazie ai programmi sociali di Lula, è piena di debiti. Un decennio di prestiti facili e facilissime che hanno arricchito le Banche adesso strozzano chi ne ha goduto e, di conseguenza, i consumi. Nessuno compra, nessuno vende. Le tre emergenze: economia, politica e moralità pubblica, si autoalimentano in un vortice di smarrimento e inquietudine che contagia tutto. Tra sette mesi ci sono le Olimpiadi di Rio de Janeiro. E non si può escludere che proprio in quelle settimane il crac brasiliano raggiunga il suo culmine. Per evitare altre proteste, Dilma ha preteso assoluta trasparenza nei conti e un taglio del 10% sul preventivo di spesa da 1,7 miliardi di euro. Cerimonia d’apertura più modesta e riduzione, da 70 a 60mila, del numero di addetti all’organizzazione. Il giorno che il presidente della Camera, Eduardo Cunha, ha accettato la richiesta di avvio dell’impeachment contro Dilma la Borsa di San Paolo ha fatto un balzo. Ma sono fuochi fatui. La destituzione della presidente, che molti speravano si dimettesse ma che non lo farà, non è cosa facile, solo per arrivare a votarla ci vorranno mesi, e l’accusa abbastanza discutibile. Dilma avrebbe aumentato il deficit pubblico per usare fondi statali nella sua campagna della rielezione. Sarà soprattutto un processo politico e, fin ora, nel Senato la presidente ha una maggioranza dalla sua parte. Così molto dipenderà dalla contingenza economica, dai ricatti incrociati e dalle convenienze dei partiti. Le maggiori agenzie di rating si preparano a punire ancora il Brasile togliendo punti al suo debito come già hanno fatto nel corso del 2015. Fitch l’ha già fatto due volte, Moody’s lo farà presto. Quasi bond spazzatura con tendenza negativa. In previsione di una recessione che si approfondirà ancora e durerà per tutto il 2016. Anche se riuscisse a sopravvivere al tentativo di impeachment nulla può garantire che Dilma arrivi alla fine del mandato. Il suo isolamento è ormai grande anche fra dirigenti e deputati del suo partito, il Pt di Lula. Le rinfacciano di aver scelto un liberista ortodosso, Joaquim Levy, per il ministero dell’economia che ha congelato la spesa pubblica tagliando il bilancio statale di 2 miliardi e mezzo di euro. Una scelta che per molti nel Pt può solo peggiorare gli effetti della recessione. E non è neppure da escludere che qualcuno nel suo partito possa avere la tentazione di approfittare dell’impeachment per liberarsi di una presidente sempre più scomoda, impopolare e sgradita.