Prima Comunicazione, 15 dicembre 2015
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La seconda vita di Giovanni Floris. Una lunga intervista sul giornalismo e non solo
Il capitano Floris non rinuncia a cravatta e vestito blu anche quando lavora fuori onda. Unica concessione il nodo smollato e il primo bottone della camicia aperto. Nell’ufficio al secondo piano degli Studios romani di via Tiburtina 521 (gli ex, storici, stabilimenti De Paolis) ci sono una scrivania, un computer, un tavolo da riunioni con lavagna murale bianca e un pallone giallo di gommapiuma. Per giocare con i suoi due figli maschi, quando lo vengono a trovare. Ambiente basic da cameretta Ikea. Ambiente da battaglia, dove ogni settimana si programma la mossa per risicare decimali a proprio favore nella guerra dell’audience fra talk show. Nella guerra fra il DiMartedì del capitano Floris su La7 e il Ballarò dell’ex vice direttore di Repubblica, Massimo Giannini, su Raitre. Gara fra amici – “Con Massimo ci vedevamo con le famiglie, prima che diventassimo concorrenti: adesso l’amicizia è rimasta, ma non ci si frequenta più”, ammette Floris – che rende la competizione intrigante e puntuta, ma mai cattiva. Floris, che di Ballarò è stato la faccia e la mente per dodici anni, è trasmigrato a La7 nell’estate del 2014, dopo un tira e molla fastidioso e poco comprensibile sul rinnovo del contratto con la Rai. Dall’autunno dell’anno scorso ogni martedì va in onda la sfida. Partito con il passo pesante, DiMartedì ha dovuto correre costantemente in salita, ma nel tempo, con regolarità, ha grattato ascolto al concorrente. Dal 3% delle prime puntate, contro il 12% di Ballarò all’esordio in versione Giannini, è risalito sopra il 5% di media, con punte che hanno toccato il 7%. In questa stagione è riuscito a sorpassare per cinque volte il talk di Raitre. Impresa non banale, se si considera che Ballarò gode di un trascinamento storico, dopo tredici anni di programmazione, e che il pubblico Rai ha una mobilità bassissima. Ovvero tende a spostarsi, nella quasi totalità, solo nel ‘mondo’ dei canali del servizio pubblico. Per fedeltà, abitudine e pigrizia.
Romano di nascita e sardo d’origine, Giovanni Floris ha 47 anni, una laurea in Scienze politiche alla Luiss alle spalle e una voglia di farcela feroce, a dispetto del modo educatissimo e apparentemente understated di confrontarsi con gli altri. Quando è apparso sugli schermi di Ballarò, nel 2002, dirigendo in uno studio affollato il traffico di politici sgamati, sgomitanti e rumorosi, molti predissero la sua rapida scomparsa dai palinsesti. Andò molto diversamente: Ballarò ha fondato e rifondato la categoria del talk show politico in Italia, sfondando qualsiasi previsione d’ascolto. Fino a raggiungere e superare il 20%. A Giovanni Floris deve moltissimo Maurizio Crozza, che a Ballarò ha assaggiato per la prima volta il grande pubblico, e anche molti politici, sindacalisti, economisti, sondaggisti transitati sulle poltrone di cartone riciclato del suo salotto televisivo. Floris ha la faccia e i modi del bravo ragazzo. Qualche detrattore ha scritto che somiglia a Clark Kent, l’imbranatissimo alter ego di Superman. Ma basta vederlo all’opera per un minuto, fra telecamere, luci e ospiti, in uno studio tivù per capire che dietro gli occhiali di “Giova” (così lo chiama Crozza) ci sono l’animus e la capacità di un abile e freddo domatore. Uno che non disdegna la rissa, ma pronto a far staccare il microfono anche al più riverito fra i politici. Uno che non perde mai la calma. Uno capace di dire di no a Berlusconi, che pretendeva di battibeccare al telefono a suo piacimento.
Uscito dalla Rai dopo diciotto anni di onorato servizio (era stato assunto nel ’96 al Giornale Radio dopo aver frequentato la scuola di giornalismo di Perugia), Floris è approdato a La7 di Urbano Cairo con un’unica certezza: quella di portarsi dietro una fetta del suo vecchio pubblico. Certezza sgretolata dopo un paio di puntate del suo nuovo talk DiMartedì, confessa in questa intervista a Prima. L’obbligo di dover ripartire da zero lo ha costretto, insieme alla squadra che lo ha seguito dai tempi di Ballarò, a doversi reinventare ingredienti, tempi e sapori del suo nuovo programma. Facendone, in sostanza, una cosa piuttosto diversa e meno prevedibile della creatura passata nelle mani di Giannini. Urbano Cairo gli ha dato tempo cinque anni per consolidare ascolti e pubblico. Rinnovando fiducia in una formula, quella del talk show, che molti hanno considerato sul viale del tramonto, dopo gli ascolti record del decennio passato.
Lei è stato l’inventore e l’interprete di una formula – quella del talk show centrato sul dibattito politico e sulla settimana politica che negli anni ha dilagato sulle tivù generaliste. Da qualche tempo si dice, forse con qualche ragione, che quella formula è in agonia, se non morta. E in fondo i dati di ascolto della sua nuova trasmissione ‘DiMartedì’, abbinati a quelli della sua vecchia creatura, ‘Ballarò’, sembrano confermare: in due fate la share che una volta era normale (o addirittura bassina) per il solo ‘Ballarò’, ai tempi della sua conduzione.
«Non sono d’accordo. Quando ho iniziato ‘Ballarò’ era il 2002, gli esperti di Raitre mi spiegarono che come share si poteva puntare al 10%. E spiegavano: se fai meno non hai alibi, perché in Italia c’è un 10% di persone sempre disposto a seguire la politica. Oggi, se si guardano le percentuali dei talk show ‘politici’, siamo ancora a quel 10%, o anche al 12% complessivo il martedì, credo per via della potente tradizione di ‘Ballarò’».
Mi scusi, Floris, ma qualche anno fa le percentuali del suo ‘Ballarò’ erano bel oltre il 10%. Qualche volta superavano il 20%, ossia il doppio. Non può dire che non è cambiato niente.
«Infatti non lo dico. Ma segua il ragionamento. Quando iniziai con ‘Ballarò’ partimmo con una share fra il 7 e il 10%, ma poi, per anni, ci fu l’effetto Berlusconi e una concatenazione di fatti atipici. Col caso Marrazzo, per dire, siamo arrivati al 22%. Io penso che quella fosse l’anomalia, questa è invece la normalità. Non mi sembra strano che, in un Paese europeo, la politica interessi una persona su dieci. Rispetto al decennio precedente c’è stato un calo d’interesse che è visibile su tutti i mezzi: dalla tivù ai quotidiani, alla radio e persino nei canali all news. Facendo le dovute differenze, è un po’ come per la Nazionale di calcio: ci sono fasi in cui è seguitissima e ha picchi d’ascolto spaventosamente alti e altri in cui si scende a livelli impensabili».
Sicché, secondo lei, è merito di Berlusconi se il ‘suo’ ‘Ballarò’ faceva il 20% di share. Paradossale, non trova?
«È un po’ schematico. Innanzitutto perché non considero un merito fare ascolti alti, ma considero un merito essere seguiti e apprezzati. E poi perché, quando uscì, ‘Ballarò’ fu una novità per la tivù italiana e nel modo di trattare la politica in televisione per almeno tre fattori. Il primo: mettere in scena tante idee differenti su uno stesso piano; nessuna veniva considerata superiore alle altre. Il secondo: offrire una chiave di lettura economica dei fatti principali, guardando le cose dal punto di vista delle ricadute pratiche e dei numeri. Il terzo: mettere le opinioni dei politici a diretto confronto con quelle di sindacalisti, esperti, economisti come Tito Boeri, Giacomo Vaciago, Alberto Quadrio Curzio. Credo che queste siano state le carte vincenti di ‘Ballarò’. Offrire un profilo decisamente differente rispetto a Santoro, che allora aveva un notevole successo, e a Vespa. Ora c’è la necessità di interpretare la realtà in un altro modo. E infatti ‘DiMartedì’ è un’altra cosa rispetto a ‘Ballarò’».
Ci racconti com’è iniziata la sua vita da conduttore di talk show.
«Ero a New York nel 2001, facevo il corrispondente per il Giornale Radio Rai e pro tempore per la tivù. Ero pronto a rimanere negli Usa per altri quattro anni e con mia moglie Beatrice stavamo cercando casa. Poi mi telefona Paolo Ruffini, che ai tempi era direttore di Raitre, e mi chiede se sono disposto a tornare per condurre un nuovo talk show».
Ma come l’ha capito Ruffini che nel giovane Floris albergava l’animo del domatore da studio televisivo?
«Mah, fino a quel momento avevo fatto radio. Avevo condotto ‘Baobab’ e ‘Radio Anch’io’. È stata una intuizione di Ruffini. Per me è un genio: ha portato Iacona, Fazio, la Gabanelli e la Sciarelli in prima serata, riuscendo a fare di Raitre la terza rete d’Italia. E adesso è riuscito in poco tempo a triplicare gli ascolti di Tv2000, la tivù del Vaticano».
Qual è l’elemento di discontinuità più importante fra ‘Ballarò’ e ‘DiMartedì’?
«Le faccio un esempio. Prima spiegavamo il momento politico economico con i tributaristi, i giuslavoristi e gli economisti. Oggi, se decidiamo per esempio di parlare di fisco, chiamiamo in studio un commercialista in grado di spiegare riga per riga il 730. Preferisco fare un focus che un dibattito sul fisco. La nuova ottica è l’attenzione ai dettagli. Il cambiamento di format agevola questa impostazione. Ogni venti minuti noi abbiamo un blocco di pubblicità di sei minuti. Quindi io sono, di fatto, costretto a cambiare argomento. Ma al tempo stesso devo cercare di non far fuggire il mio pubblico. O di farlo tornare da me. Per questo è indispensabile che ricordi la scaletta a ogni blocco. Che mantenga alto l’interesse del pubblico. Per questo ogni argomento viene trattato con una modalità a sé stante. Quasi un format. Ogni puntata di ‘DiMartedì’ mette in fila politica, economia, scienza e cultura. È l’esperienza di sfoglio di una rivista che ha diverse sezioni e che, per ogni numero, deve reinventarsi un’impaginazione».
È vero che ogni puntata di ‘DiMartedì’ vi costa sei ore di lavoro in studio?
«Anche di più. A volte c’è una parte registrata che, inevitabilmente, allunga i tempi. D’altronde abbiamo la disponibilità dello studio per un giorno e in quel giorno dobbiamo far tutto. Siamo arrivati a gestire fino a 27 ospiti per puntata. È chiaro che qui a La7 lavori in una logica diversa rispetto a quella della Rai. Una logica che ti responsabilizza. Qui devi confrontarti sempre con il dato economico e con le compatibilità logistiche. Se, come squadra, non fossimo stati rodati non saremmo riusciti a tenere il passo. Io il martedì finisco letteralmente morto».
Quanti chili perde ogni volta?
«Ma che, scherza? Qui sto mettendo su peso, perché quando stacchi, verso l’una di notte, hai una fame da lupo. E finiamo a farci una Carbonara in qualche trattoria ancora aperta a San Lorenzo. Faccio la cura del guanciale, altro che dieta. Ma devo dire che alla fine sono, siamo, molto contenti: facciamo una rivista, non un magazine. E poi uno dei motivi più eccitanti del cambiamento è stata la possibilità di tornare a fare l’inviato, raccontando la Cappella Sistina, Pompei, altri straordinari luoghi d’arte. Parlare di libri. E poi fare più interviste, più faccia a faccia. A Ballarò non potevamo permettercelo».
Questa divisione in blocchi del programma non fa correre il rischio di una caduta della share fra un segmento e l’altro?
«Non c’è un blocco che perde sul precedente, la percentuale non scende. Al più sale. La risposta che stiamo dando alla concorrenza è la qualità. Facciamo un gran lavoro di casting».
Casting di politici?
«No, ora gli ospiti politici sono davvero pochi. Cerchiamo nuovi ospiti sulla parte economica, culturale e di scienza. Cerchiamo buone storie e personaggi».
La politica ha sfinito anche i più accaniti?
«Nel vecchio Ballarò trattavamo la politica attraverso l’economia, ora trattiamo i problemi. E la politica è solo una parte. Non è colpa dei talk show se la politica si segue meno. Sono politici nuovi, sono meno conosciuti, ma in una certa misura sono già omologati. Giocoforza attraggono di meno».
Non negherà che la visibilità televisiva, per un politico, sia una specie di ossessione.
«Certo. Ma è così da più di cinquant’anni. Quest’estate ero negli Usa e mi è capitato di seguire qualche confronto fra candidati repubblicani alle primarie. Be’, sono uguali ai nostri. Il pacchetto è lo stesso. Più faccio questo mestiere più mi convinco che l’interesse delle persone non è pilotabile da una trasmissione: va dove lo porta il cuore. E per fortuna anche la testa, qualche volta».
Lei vola un po’ troppo basso, Floris. Ci sono personaggi politici che devono a lei la carriera che hanno fatto. La Polverini, per esempio, che da oscura sindacalista è diventata presidente della Regione Lazio.
«So che quella è la vulgata, ma in realtà non solo lei si è fatta conoscere a ‘Ballarò’. Penso a Giuliano Poletti, a Tito Boeri. Persino Enrico Letta, Pier Luigi Bersani, Michela Brambilla, Anna Maria Artoni, Susanna Camusso. Credo che la realtà sia che con ‘Ballarò’ è cresciuta una classe dirigente di politici che si occupava di economia. Cresciuta o rinata, come nel caso di Bruno Tabacci. Per questo gruppo di persone Ballarò è stata un’occasione, una vetrina, un’opportunità che hanno, più o meno, saputo cogliere. Ma questo è avvenuto, insisto, perché abbiamo sempre cercato di coniugare insieme economia e politica, non per il potere magico della televisione di cambiare la realtà».
Insisto: Renata Polverini era la segretaria di un sindacato marginale. Senza la visibilità assicurata da ‘Ballarò’, probabilmente, l’elezione a presidente del Lazio se la sarebbe scordata.
«Ma quante persone di valore, o anche di scarso valore, sono passate da ‘Ballarò’ e ce le siamo dimenticate? Io posso essere stato la causa di un successo o di un insuccesso a breve. Ma il medio o lungo termine fanno giustizia. Una persona che vale poco può funzionare una o due volte in un talk show. Al massimo può funzionare per una stagione, ma poi si sgonfia. E poi questa idea che un talk show sia una specie di casting per i partiti è proprio sbagliata. Oltretutto oggi si è moltiplicata l’offerta dei palcoscenici politici televisivi e quindi quell’effetto, se c’è mai stato, è finito. No, non rimpiango i tempi andati, quando c’era solo ‘Ballarò’».
Tempi più comodi o più scomodi, quelli di adesso? Lei si è fatto diciotto anni in Rai, azienda dai molti difetti, ma anche di alcune indubbie comodità.
«Sì, uscire dalla Rai è come uscire dalla casetta per i bambini delle favole che affrontano la foresta. Dopodiché lavorare per una rete così autorevole, ma che sulla carta parte come settima su sette, ti dà una carica che ti spinge a inventare, a giocare a carte scoperte. Al netto del weekend, quando comunque stiamo sempre in contatto telefonico e con WhatsApp, noi campiamo dentro queste quattro mura. Lavoriamo come matti. Ricordo bene come andò la prima puntata di ‘DiMartedì’: noi al 3% e Raitre al 12%. Uno shock e un bagno di realtà. Pensavo che il pubblico mi avrebbe seguito e invece ho dovuto ricredermi subito. E ricominciare da capo. Ma questo è stato ancora più gratificante. L’anno scorso siamo passati dal 3% delle prime puntate al 7% finale. A Natale 2014 eravamo al 4%, oggi siamo sul 5,5%. Insomma, gli ascolti non fanno il salto. Puoi avere dei picchi ma la tivù è soprattutto abitudine. Noi cerchiamo di far cambiare abitudine a chi ha seguito una trasmissione come ‘Ballarò’ e, al tempo stesso, conquistare una fetta di nuovo pubblico. E comunque, oltre alla comodità c’è anche la libertà. Non mi sono mai sentito così libero e creativo come in questo momento».
Qual è la difficoltà maggiore nella conquista di pubblico alla concorrenza?
«Il fatto che la Rai è un mondo a sé. Chi sta su Raiuno, quando cambia, va sul Due e poi sul Tre. Lo fa per abitudine consolidata e poi perché sul telecomando usa il tasto ‘più’ e non il tastierino numerico. Noi dobbiamo convincere il telespettatore che siamo una buona scelta. Stesso discorso anche per i canali Mediaset, che però sono un po’ più mobili dei canali Rai. È un lavoro lungo e delicato. Siamo ai primi passi. E anche l’editore ne è perfettamente consapevole».
Che contratto ha strappato a Urbano Cairo?
«Ho un contratto di cinque anni. Cairo non è uno che fa queste cose a caso. Ho cinque anni per costruire un pubblico. All’inizio avevamo ipotizzato una seconda trasmissione quotidiana, ma ci siamo resi conto che non era praticabile, visto l’impegno per il settimanale. Quando ti svegli il mercoledì mattina e hai fatto il 3%, capisci che ti aspetta un lavoro di costruzione duro, mattone su mattone, senza pause. E meno male che per fortuna sto di casa abbastanza vicino alla redazione».
Così riesce a vedere i figli, ogni tanto.
«Sì, ma soprattutto perché mia moglie e i ragazzi mi vengono a trovare. Così riusciamo a mangiare insieme e a passare un po’ di tempo qui, in ufficio. Altrimenti rischierei di vederli solo nel weekend».
Come funziona la redazione di ‘DiMartedì’? Quanti siete? Quando definisce la scaletta del programma?
«Per noi la settimana comincia il pomeriggio del mercoledì, alle 16, con una prima riunione dove si ipotizzano servizi e ospiti della puntata successiva. Il giovedì e il venerdì si iniziano a girare i servizi e dalle 14,30 c’è un brief lungo della redazione che passa al setaccio le proposte e comincia a visionare il materiale. Sabato è il giorno di reclutamento definitivo e conferma degli ospiti. Rimane un presidio in redazione e ci sentiamo durante la giornata attraverso WhatsApp e telefonate. Stessa cosa anche di domenica. Lunedì si lavora dalle 10 del mattino a mezzanotte per la messa a punto finale dei servizi, il timing dei diversi spezzoni, i collegamenti e i testi. La scaletta definitiva la faccio il martedì mattina. Mangio qualcosa, tengo l’ultimo brief con gli autori e la redazione e poi dalle 16 sono in studio. In redazione lavorano una ventina di colleghi. Fra collaboratori e personale tecnico lavorano a ‘DiMartedì’ una cinquantina di persone. E poi c’è il pubblico in studio: 250 persone».
Anche il pubblico sta in studio otto ore ininterrotte?
«Sa che non lo so? Credo che ci sia una rotazione. Lo spero per loro».
Che rapporto avete lei e Maurizio Crozza? Sembrate parenti.
«Gli sono grato. È una persona molto intelligente. La collaborazione con me è iniziata nel 2004. Lavora nella massima autonomia. Non posso dire che siamo amici, ma viviamo la professione in amicizia, ecco».
Le cito tre opinioni su di lei. Mi dica cosa ne pensa, poi le dirò gli autori. “Lustrascarpe dei potenti”. “Il Bruno Vespa di centrosinistra”. “Di qui devi passare, sennò non sei nessuno”.
«La prima è di Beppe Grillo, ma credo sia di qualche anno fa. La seconda penso sia del Fatto Quotidiano, ma non mi ricordo l’autore. La terza non so proprio. Però poteva pure citarmi qualche frase meno negativa».
La prima l’ha indovinata: era di Grillo, nel 2009. La seconda quasi: è di Carlo Tecce, un giornalista del Fatto Quotidiano, mentre la terza, che non mi pare proprio negativa, anzi, è di un importante producer e autore televisivo, Gregorio Paolini. Per accontentarla posso anche aggiungere che c’è stato un politico importante che ha detto che lei è il più bravo
.«Sì, Berlusconi. Salvo cambiare idea e definire le mie trasmissioni come processi politici in tivù».
E i Cinque Stelle? La detestano ancora?
«Non credo. Quando li invitiamo vengono. Non so Grillo, ma se gli altri la pensavano come lui, adesso immagino abbiano cambiato idea».
Il servizio pubblico radiotelevisivo ha ancora ragione di esistere? In cosa dovrebbe cambiare la Rai?
«Sono sempre stato dell’idea che sotto alcuni programmi andrebbe scritto “pagato con il canone” e sotto altri “pagato dalle entrate pubblicitarie”. Si farebbe chiarezza. E forse si eviterebbero tante inutili polemiche».