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 2015  dicembre 13 Domenica calendario

L’Italia in 120 metri, negli affreschi voluti da Gregorio XIII (e appena restaurati)

Il viaggio in Italia di papa Gregorio XIII Boncompagni, dalle Alpi alla Sicilia, era lungo 120 metri. Iniziava dai porti di Genova e Venezia e proseguiva volando sul crinale dell’Appennino: alla sua destra scorrevano le regioni bagnate dal mar Ligure e dal Tirreno, alla sua sinistra quelle lambite dall’Adriatico. Il Pontefice planava sopra montagne e pianure, laghi e isole, fiumi che serpeggiavano nella campagna, file di alberi che bordeggiavano i confini tra i campi, porti popolosi e mari turchini solcati da ogni genere di imbarcazioni, valli e boschi, strade e città. Arrivava in fondo, all’estremo limite della Calabria Ulterior, sull’orlo dello Ionio, stordito dall’azzurro e dal verde.
Rifece il viaggio chissà quante volte, prima di morire, il 10 aprile 1585, a 84 anni, dopo tredici di pontificato. Ne aveva avuti quasi quattro per dedicarsi al «bellissimo spasseggio», come Marc’Antonio Ciappi, biografo ufficiale, definì la Galleria delle carte geografiche in Vaticano. Era stato lo stesso Gregorio a commissionarla e pretendere che fosse portata a termine in due anni, tra il 1580 e il 1582. Nacque così quello che rimane il più vasto ciclo pittorico di figurazioni geografiche esistente al mondo e una delle più straordinarie imprese artistiche del tardo Cinquecento. Uno degli spazi più suggestivi dei Musei Vaticani, anche se tra i meno noti.
I visitatori che oggi percorrono frettolosamente la Galleria tra il cortile del Belvedere e i giardini, diretti verso la Cappella Sistina, quasi non si accorgono delle pareti affrescate con le 40 monumentali tavole cartografiche che restituiscono in prospettiva aerea, ma in scala variabile, tutte le regioni della Penisola. Parte di queste regioni, sul lato sinistro di percorrenza, è nascosta dai teli dei restauratori, che vi lavorano da tre anni. Ma la parete destra, liberata dalle impalcature, attrae irresistibilmente lo sguardo. Perché dopo 500 anni, per la prima volta, il verde e l’azzurro, distribuiti a piene mani sulle terre e le acque del «bel paese» cantato da Petrarca, hanno ritrovato la loro abbagliante luminosità.
«Erano stati modificati da ricorrenti stesure di colle che avevano ingiallito e appiattito la superficie pittorica, offuscando la tridimensionalità del disegno e impedendo la percezione delle carte geografiche come panorami», spiega il direttore dei Musei Vaticani, Antonio Paolucci, che annuncia l’inaugurazione ufficiale dei restauri per la prossima primavera. Ora le onde del mare hanno ritrovato le loro creste di spuma e le catene montuose la loro plasticità, che le fa apparire quasi scolpite più che dipinte. Francesco Prantera, che dirige la squadra dei tredici restauratori, racconta a «la Lettura» che ritocchi e interventi si resero necessari già nel corso del Cinquecento, a poca distanza dalla fine dei lavori: «Probabilmente a causa della velocità con cui gli affreschi furono eseguiti. Le modifiche più significative furono senza dubbio quelle della prima metà del Seicento, durante il papato di Urbano VIII Barberini, che ne volle lasciare memoria disseminando ovunque l’ape araldica del suo casato, accanto al draghetto dello stemma di papa Boncompagni».
Pulendo gli strati di azzurrite e malachite, Prantera ha scoperto che alcune carte, al tempo di Urbano VIII, furono radicalmente trasformate. Si tratta delle mappe dell’Etruria, del Patrimonio di San Pietro, del Lazio e della Sabina, in cui i mari furono letteralmente rovesciati: anziché nella parte bassa della carta, come erano in origine e come sono rimasti nelle altre regioni, oggi appaiono ridipinti in alto, a nord. Autore dei rifacimenti fu l’umanista tedesco Luca Holstenio, che si giovò dei progressi intervenuti tra Cinque e Seicento nel campo della cartografia, dovuti alla scoperta delle Americhe e poi dei satelliti di Giove, la cui osservazione consentì misure sempre più precise delle longitudini. Un’altra scoperta è lo zoccoletto in finto marmo bardiglio grigio con venature bianche, che era finito sotto una rozza ridipintura gialla e che oggi restituisce una percezione di continuità con il marmo vero delle cornici delle finestre. Gregorio volle infatti che il lungo corridoio affrescato fosse scandito e illuminato da 17 finestroni su ciascun lato. In questo modo la visione reale dei giardini del Vaticano si alternava a quella dipinta dell’Italia, intesa come giardino del Papa. «Tutti dovevano saperlo – dice Paolucci – e dovevano sapere che questo giardino era coperto da un ininterrotto ombrello di santi, di martiri, di eventi salvifici e provvidenziali».
Se infatti si alza lo sguardo verso il soffitto, si può constatare come a ogni regione corrisponda il suo santo patrono. Sopra Milano ecco Ambrogio a cavallo mentre scaccia dalla città i seguaci dell’eretico Ario. Sulle Marche si stende il manto protettivo della Vergine di Loreto, sulla Puglia vola san Michele, sulla Calabria si erge san Francesco di Paola, sulla Sicilia vigila sant’Agata. Passeggiando lungo la galleria, il Papa aveva la sensazione di poter controllare e governare la penisola senza uscire di Palazzo.
Il percorso dei visitatori procede oggi in senso inverso a quello di papa Boncompagni, che l’affrontava uscendo dal Palazzo Apostolico e dirigendosi verso la Torre dei Venti, dove un anemometro e una meridiana controllano da 500 anni le correnti d’aria e lo scorrere del tempo. A mettere in opera i due meccanismi fu lo stesso autore delle Carte, Carlo Pellegrino, che mutò il nome in Egnazio Danti quando, nel 1555, entrò nell’ordine domenicano. Danti e il futuro papa Gregorio si erano conosciuti all’università di Bologna, dove il cardinale Boncompagni insegnava giurisprudenza e Danti scienze matematiche e cosmografiche in relazione con l’arte del disegno. Gran sostenitore del Concilio di Trento, Boncompagni era convinto che la rinascita del cattolicesimo, dopo la Riforma protestante, si dovesse giocare sul campo della cultura. Lo fece promuovendo l’archeologia sacra e gli studi storici cristiani, l’edizione della Bibbia greca detta «dei Settanta» e la versione araba dei Vangeli in quattromila copie, la revisione delle musiche corali con l’aiuto del compositore Giovanni Pierluigi da Palestrina, la riformulazione del corpo giuridico della Chiesa, la diffusione dei catechismi nelle varie lingue europee.
Ma soprattutto cercando di mettere in ordine, con l’aiuto di Danti, il tempo e lo spazio. Progettò per questo la riforma del calendario e la raffigurazione unitaria dell’Italia, che sembra adombrare il progetto di un governo, almeno spirituale, del papato sull’intera penisola. Fu proprio nella Torre dei Venti che si riunì, insieme a Danti, il gruppo di ecclesiastici, astronomi, matematici, teologi e giuristi incaricati di elaborare le due straordinarie imprese. La riforma del calendario, che da allora si chiama gregoriano, fu promulgata con la bolla Inter gravissimas del 24 febbraio 1582, con la quale si stabiliva che, in quell’anno, al giovedì 4 ottobre sarebbe seguito il venerdì 15 ottobre, per cancellare lo sfasamento tra il tempo astronomico e quello ufficiale fittizio stabilito da Giulio Cesare.
Pochi mesi prima dell’annuncio della riforma del calendario era stata inaugurata la Galleria delle carte geografiche. Per realizzarla Egnazio aveva convocato una ditta di pittori paesaggisti, formata da Girolamo Muziano, da Cesare Nebbia, dai fiamminghi Mattia e Paul Bril, da Giovanni Antonio Venosino di Varese, specialista in restituzioni cartografiche. E da una folta schiera di altri artisti e artigiani i cui nomi oggi ci sono ignoti. Egnazio fu il regista dell’intera operazione. Vi si dedicò con una minuziosità e una genialità senza pari. Basta guardare la pianta urbana di Venezia, immersa nella laguna e solcata dai canali, dove i particolari sono più precisi di una foto aerea, a cominciare da piazza San Marco con il doppio ordine di porticati, la basilica, il campanile, il palazzo ducale. O Firenze, racchiusa nel semicerchio delle mura e accarezzata dall’Arno. O quella di Bologna, dove ogni strada e perfino i vicoli sono nominati.
Se ci si ferma a osservare i boschi della Lucania, si scoprono leprotti bianchi che saltano nei prati sotto gli alberi. Sulle coste friulane si intravedono pescatori che gettano la lenza seduti sugli scogli. E ogni borgo, anche il più sperduto e insignificante, è ritratto con la sua chiesetta, il suo castello, le case basse, un ponte, una torre. Nel porto di Civitavecchia sta approdando una nave oneraria romana, ricostruita in forma di zattera, con due alberi, vele quadre e 26 coppie di remi. Trasporta un grande obelisco, identificato dalla scritta sul basamento come quello attualmente in piazza Montecitorio a Roma, che l’imperatore Augusto usò come gnomone per la gigantesca meridiana di Campo Marzio.
Ci sono, disseminati nei mari italiani, tutti i modelli di navi dell’epoca: galeoni e galere da guerra, brigantini e pescherecci, feluche e scialuppe, gondole e battelli, fuste e barche da diporto. Ma Egnazio e la sua ditta fecero ancora di più: alla morfologia geografica sovrapposero una cartografia storica, dipingendo eventi epocali. Ecco Annibale con i suoi elefanti sul fiume Trebbia, pronto a massacrare nel 218 a.C. le legioni romane guidate da Cornelio Scipione e Sempronio Longo. E poi eccolo di nuovo, nell’affresco dedicato all’Umbria, accampato sul lago Trasimeno in attesa di annientare l’esercito guidato dal console Gaio Flaminio.
Trasferendosi alle porte di Mantova, il visitatore trova Leone Magno che blocca Attila diretto a Roma, Urbis excidium anhelantem, spinto dalla bramosia di far strage in città, come si legge nel cartiglio. Ma l’evento più spettacolare, dipinto quasi en plein air, è la battaglia di Lepanto, 7 ottobre 1571, dieci anni prima dell’inaugurazione della Galleria. Lo scontro navale, in cui la flotta della Lega santa cristiana sconfisse quella ottomana che avanzava alla conquista del Mediterraneo, è riportato con precisione fotografica: lo schieramento delle due flotte, le onde agitate dalle navi all’assalto, i vessilli al vento, il fumo dei colpi di cannone. Ci sono infine, tra i draghi di Boncompagni e le api di Barberini, dei cartigli scritti con fili d’oro. Esaltano la bellezza dell’Italia, chiamata regio totius orbis nobilissima, terra che brilla per splendore e nobiltà in tutto il mondo. Oppure riconosciuta ovunque per il suo patrimonio artistico e culturale. Infine apprezzata per l’ambiente salubre, il clima temperato, la fecondità dei campi. «Un piccolo paradiso ecologico», commenta il cardinale Gianfranco Ravasi ne Le meraviglie dei Musei Vaticani (Mondadori). E aggiunge: «D’altro lato, però, l’amore di papa Boncompagni per l’Italia ci costringe a confrontare le carte di questa galleria con le mappe attuali delle nostre città, spesso devastate dall’urbanizzazione selvaggia, con le cartine delle regioni ove il verde si comprime per lasciare spazio alla cementificazione, con i santi protettori sostituiti dalle mafie, dai corrotti, dai corruttori».