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 2015  dicembre 15 Martedì calendario

Il mistero dell’inflazione sparita

La Federal Reserve domani dovrebbe alzare i tassi di interesse per la prima volta in nove anni, supponendo che occupazione e inflazione raggiungano gli obiettivi e dimostrino che l’economia Usa è sana. Ma i banchieri centrali sono di fronte a una questione preoccupante: il lavoro è sulla buona strada, ma il dato sull’inflazione non si sta muovendo secondo le previsioni e non ne sono chiare le cause.
La disoccupazione Usa è scesa al 5%, livello vicino alla piena occupazione, ma l’inflazione resta inchiodata sotto l’1%, ben sotto il 2% fissato dalla Fed. La banca centrale prevede che si avvicinerà a questo livello nel 2016. Il problema è che negli ultimi quattro anni era stata fatta la stessa previsione. Se la Fed si sbagliasse, potrebbe alzare i tassi troppo presto, concretizzando il rischio di recessione. Gli errori in merito alle previsioni d’inflazione hanno scatenato il dibattito all’interno della banca centrale sui modelli economici utilizzati. Il presidente Janet Yellen a settembre aveva riconosciuto «una significativa incertezza» sulla previsione di aumento dell’inflazione. I modelli convenzionali, aveva detto, sono diventati «oggetto di controversia». Ora Yellen sta facendo i conti con il dissenso dei banchieri centrali, che vogliono mantenere i tassi vicino allo zero finché non ci saranno prove concrete della crescita dell’inflazione. Mentre il mercato del lavoro è prossimo alla normalità, «sono molto meno convinto che raggiungeremo il target di inflazione in tempi ragionevoli», aveva detto a novembre Charles Evans, presidente della Fed di Chicago. Per una generazione gli economisti hanno creduto che le banche centrali avessero il controllo della dinamica dei prezzi e potessero utilizzarlo per orientare la politica: se era troppo bassa, un taglio dei tassi poteva rilanciare l’economia; se era elevata, i tassi si aumentavano.
L’attuale stallo dell’inflazione a livelli minimi è una svolta. Di fronte a un’inflazione bassa e a una crescita economica lenta Stati Uniti e Regno Unito quasi sette anni fa e l’Eurozona tre anni più tardi hanno portato i tassi di interesse quasi a zero. Inoltre le banche centrali hanno acquistato bond nella speranza di abbassare i rendimenti, incoraggiando in tal modo famiglie e imprese a contrarre prestiti o a reinvestire il denaro in progetti a più elevato rischio. La Fed ha pompato 2.500 miliardi di dollari nelle banche. Tre anni fa la Bank of Japan ha lanciato il più ampio piano di acquisto di asset impegnandosi ad alzare l’inflazione al 2% entro due anni. Invece, mentre le principali economie continuavano a crescere, l’inflazione è rimasta indietro: la zona euro presenta un tasso annuo dello 0,1% con una crescita del pil l’1,9%; nel Regno Unito i prezzi salgono dello 0,1% e il pil cresce del 2,3%; il Giappone ha un’inflazione dello 0,3% e cresce dell’1,1%; negli Usa i prezzi salgono dello 0,2% con una crescita del 2,2%. Di fatto il petrolio basso ha soffocato i prezzi. Ma anche l’inflazione core, che esclude prodotti alimentari ed energia, è calata sotto il target della Fed per più di tre anni e oggi è all’1,3%. «Nessuno avrebbe mai previsto, con i modelli dominanti, che l’inflazione sarebbe calata così tanto», commenta Adam Posen, presidente del Peterson Institute for International Economics, un think tank. «La macroeconomia è dell’epoca di Keplero e Copernico. Abbiamo costruito modelli tolemaici pensando di occuparci di meccanica quantistica». Ben Bernanke, ex presidente Fed, in un’intervista ha indicato il Congresso Usa tra i responsabili della bassa inflazione; la capacità di una banca centrale di far salire i prezzi al consumo dovrebbe avere come presupposto una politica fiscale «ragionevolmente cooperativa». In altri termini, la Fed può fare ben poco se la politica rema contro.
Una nuova teoria sulla non inflazione è venuta dall’ex governatore della Banca del Giappone, Masaaki Shirakawa. Mentre il suo ex professore, Milton Friedman, ha detto che l’inflazione può essere stimolata solo da un aumento della massa monetaria, Shirakawa ha chiamato in causa la demografia. L’invecchiamento della popolazione nipponica negli anni 90 e 2000 sembrava avere scatenato potenti forze deflazionistiche, abbassando le aspettative di crescita, mettendo a dura prova il bilancio pubblico e affidando una crescente quota dei consumi agli anziani, più propensi al risparmio dei giovani. A metà degli anni 90, la popolazione tra 15 e 64 anni è scesa da 87 milioni a 77 nel 2015. Per l’Ocse, questo implica un minor numero di persone in età lavorativa che compra case o acquista prodotti, il che frena la capacità dell’economia di innescare un aumento dei prezzi. In un discorso lungimirante del 2012, Shirakawa ha dichiarato che Usa ed Europa avrebbero affrontato condizioni simili: «Non posso escludere del tutto che la minaccia imminente si possa manifestare con una pressione al ribasso dell’inflazione». Nel 2014, un trio di economisti del Fmi ha appoggiato molte delle ipotesi di Shirakawa, sostenendo l’esistenza di «notevoli pressioni deflazionistiche legate all’invecchiamento» e che «non si tratta solo del Giappone, ma anche di altri Paesi in cui la popolazione invecchia o cala». Il dibattito sull’inflazione e le sue cause si è fatto rovente negli ultimi mesi. Altre teorie si uniscono alle idee di Shirakawa sull’invecchiamento dei Paesi e all’accusa di Bernanke di una politica fiscale avara. Gli economisti hanno contestato la Fed sulla comprensione del fenomeno inflazione questa estate, durante la due giorni di dibattito a Jackson Hole nel Wyoming. Faust della Johns Hopkins University sostiene che l’antica credenza che le banche centrali controllino l’inflazione è una leggenda. La Yellen ha trascorso più di due mesi a lavorare al discorso di settembre, in cui ha detto che l’inflazione bassa era frutto di un debole mercato del lavoro, fenomeno che avrebbe presto visto la fine, così come del forte calo del petrolio e dell’apprezzamento del dollaro. Con lo stabilizzarsi di petrolio e dollaro e il ridursi del rallentamento dell’economia, ha affermato, l’inflazione risalirà verso il 2%. La teoria della Yellen si affida alla vecchia idea di un trade-off tra inflazione e rallentamento dell’economia, al divario tra produzione e capacità produttiva, e al collegamento tra salari e inflazione. Una logica basata sulle ricerche di A.W. Phillips. Utilizzando i dati sul Regno Unito, alla fine degli anni 50 questi riscontrò che quando la disoccupazione era alta i salari tendevano a essere bassi; al contrario, i salari salivano al calare della disoccupazione. La relazione, nota come curva di Phillips, non ha funzionato bene di recente. La disoccupazione è scesa dal 10% del 2009 al 5% di ottobre, eppure l’inflazione è calata. Parlando a settembre, la Yellen ha detto che tale relazione si è indebolita negli ultimi anni. E alcuni colleghi alla Fed sono ancora più scettici. «Una varietà di stime econometriche suggerirebbe che la relazione di Phillips è molto debole in questo momento» riferisce Lael Brainard, uno dei governatori della Fed. Stando al primo discorso di Robert Kaplan come presidente della Fed di Dallas lo scorso mese, l’economia globale sta minando la curva di Phillips. Tesi condivisa dai ricercatori, che ritengono che la concorrenza della Cina e di altre economie dai bassi salari deprima quelli statunitensi.
Due terzi degli economisti sentiti in agosto dal Wall Street Journal tuttora crede nell’esistenza di una connessione tra un calo della disoccupazione e l’aumento dell’inflazione, ma tale rapporto sarebbe influenzato da fattori esterni. Le critiche al modello di Phillips vengono sempre più da economisti di tutte le scuole. Finora gli economisti non si sono coalizzati per dare una spiegazione migliore della non inflazione. La Fed si concentra sull’idea che i prezzi siano influenzati dal pensiero di famiglie, investitori e imprenditori. I movimenti verso l’alto o verso il basso, possono diventare una profezia che si autoavvera. Quando le imprese e i lavoratori si aspettano un’inflazione elevata, cercano di indurre rispettivamente un aumento dei prezzi e dei salari, contribuendo a spingere l’inflazione. Quando si aspettano che prezzi e salari crolleranno, rallentano la spesa, contribuendo a abbassare l’inflazione. Dalla crisi finanziaria del 2007-2009, le aspettative sull’inflazione sono crollate. «Ho una grande varietà di contatti commerciali, e nessuno di essi parla di pressioni alla crescita dei prezzi e dei costi», ha riferito Evans. «Nessuno prevede un’inflazione più elevata».
(traduzione di Giorgia Crespi)