il Fatto Quotidiano, 15 dicembre 2015
Tags : Salvataggio delle quattro banche
Travaglio e il tema della banca del buco
Quando le cose andavano male, i generali argentini invadevano le Falkland. Saddam Hussein, invece, occupava il Kuwait. Renzi, più modestamente, attacca quei pochi giornali che non si fanno dettare i titoli dal suo ufficio stampa (da un’idea della nota penna alla bava Fabrizio Rondolino, già autore di Un due tre stalla!). Fatte le debite proporzioni fra quei truci dittatori e il bulletto di Rignano sull’Arno, il movente è lo stesso: distrarre l’attenzione dal fronte interno, inventare un nemico esterno su cui scaricare le proprie colpe e agitare lo spettro di un’emergenza nazionale per serrare i ranghi e ricompattare le truppe. In fondo è quello che faceva anche il suo maestro B., che non ne azzeccava una e passava di scandalo in scandalo, ma tirava a campare creandosi ogni giorno un avversario-parafulmine che “non mi lascia lavorare”: i comunisti, le toghe rosse, la stampa comunista mondiale, la Consulta, i “poteri forti” e poi via via gli alleati traditori, da Bossi a Casini a Fini.
Gonfio e tronfio come la rana di Esopo, Renzi crede di aver lanciato dalla Leopolda un segno di grande forza e potenza, con quel miserabile referendum sui peggiori giornali da mettere alla berlina. E, a vedere i titoli dei grandi quotidiani di ieri mattina, quasi tutti compiacenti sul trionfo leopoldino e reticenti sul fuggi-fuggi renziano dal tema della banca del buco, dev’essersi vieppiù convinto di aver fatto bene: il bastone ha funzionato, la sua bravata – a parte qualche timido pigolio critico – ha sortito l’effetto sperato di intimidire e asservire ancor di più il panorama già sdraiato della stampa cortigiana. Se è così, temiamo che abbia sbagliato i suoi calcoli. L’Italia, per fortuna, è più grande e varia di come la riflette lo specchio deformante della cosiddetta informazione. La Leopolda, un tempo simbolo della nuova politica che dava l’assalto al palazzo d’inverno con idee fresche, volti giovani e slogan efficaci come la rottamazione, è diventata un rito stanco e stantio. Un “raduno di vecchi arnesi”, come l’ha definito Roberto Saviano, subito linciato dai giannizzeri renzisti in mancanza di boss casalesi a piede libero. Dopo quasi due anni di governo, il Grande Twittatore è riuscito a esibire soltanto il 75enne presidente di Cdp nonché ex ministro ed ex tutto Franco Bassanini, il presidente del Coni Giovanni Malagò, la presidentessa dello Stabile di Torino, del Museo Egizio e dell’Enit Evelina Christillin e altri noti collezionisti di poltrone non proprio di primo pelo.
La maledizione di Leo Longanesi l’ha già raggiunto alla sua tenera età: “Le rivoluzioni cominciano in piazza e finiscono a tavola”. Forse, nel secondo giorno della kermesse, quando Matteo ha mandato allo sbaraglio sul palco Maria Etruria Boschi, sola soletta, neppure accompagnata dai genitori, a spiegare l’assenza dall’inaugurazione “perché mi stavo occupando della legge di Stabilità in Parlamento” (dove nessuno l’aveva vista), senza dire una parola sulle imprese paterne e fraterne nella banca del buco aretina, non s’è reso conto che in quell’istante veniva irrimediabilmente macchiato il dogma dell’Immacolata Rottamazione. E che il simbolo più pregiato della rivoluzione sorridente è ormai inservibile, anzi controproducente. Quando poi il capo del governo ha chiuso i lavori (si fa per dire) della Leopolda ricordando che papà Tiziano passerà il secondo Natale da indagato per bancarotta fraudolenta e rivelando che, fosse per il genitore, lui – il pargolo premier – dovrebbe “passare all’attacco” contro i giudici che non si decidono ad archiviare l’inchiesta, non s’è accorto che, per la prima volta nella sua vita, era passato dall’offensiva alla difensiva, dalla trincea alla retroguardia. E poi “passare all’attacco” in che senso? Bombardando i giudici con un F-35?
Più Renzi & C. tentano di dissipare i sospetti di familismo alla rovescia (i figli al governo che sistemano gli impicci dei padri) e di conflitto d’interessi, più lo alimentano e lo rinfocolano. Anche perché i rispettivi paparini tacciono, anziché dare spiegazioni sui loro affari incrociati, ben protetti dai figli al comando. Specie ora che è sempre più evidente, con l’inchiesta romana sulle presunte speculazioni di De Benedetti, che quello del 20 gennaio sulle banche popolari era il Decreto di Pulcinella: doveva restare segreto per evitare insider trading, invece alla vigilia consentì a tanti anonimi fortunati di trafficare allegramente sui titoli degli istituti beneficati, a cominciare proprio da Banca Etruria. Certo, c’è una buona dose di sfortuna nella coincidenza temporale tra la banca del buco e la Leopolda. Ma finora Renzi si era accreditato come il Gastone della politica italiana, e anche il fattore sfiga dovrebbe allarmarlo. Sempreché sia solo sfiga, e non contrappasso.
Se Renzi ha potuto scalare il Pd sul velluto è perché D’Alema si era autorottamato con le scalate bancarie, tipo Unipol-Bnl e furbetti vari; Fassino aveva fatto perdere un bel po’ di voti a Prodi col fatale “Allora, abbiamo una banca?” detto a Consorte e pubblicato alla vigilia delle elezioni del 2006; e Bersani, subito prima di quelle del 2013, si era giocato la vittoria con lo scandalo Montepaschi. Ora il nodo irrisolto del rapporto malsano tra politica e affari, anzi tra politici di centrosinistra e banche, colpisce come la classica nemesi proprio chi ne aveva approfittato. Ed è difficile allontanare il dubbio che quella frase di Fassino a Consorte non fosse un lapsus, ma la ragione sociale del Pd vecchio e nuovo. Solo che oggi va declinata all’imperfetto: “Allora, avevamo una banca?”.