La Stampa, 15 dicembre 2015
A cinquant’anni dalla morte di Somerset Maugham, il più elegante narratore inglese
Cinquant’anni fa, il 16 dicembre, nella splendida villa La Moresque sulla Costa Azzurra, si chiudeva a 91 anni la lunga vita di William Somerset Maugham, il più elegante narratore inglese del Novecento. Circondato dalla sua splendida collezione di quadri, accudito dal «segretario» Alan Searle, il suo compagno degli ultimi vent’anni, era però un vecchio amareggiato, confuso, avvilito, ripudiato dai soci del suo Garrick Club, indignati per come nell’autobiografia pubblicata tre anni prima aveva (s)parlato della figlia e della moglie, che aveva sposato nel 1917 e lasciato una decina di anni dopo.
L’omosessualità
Maugham diceva che aveva cercato di convincersi di essere «per tre quarti normale e per un quarto omosessuale», ma che era vero il contrario. Cittadino di un Paese in cui l’omosessualità era reato, aveva deciso di tenere un basso profilo e anche per questo, dal 1926, aveva scelto di vivere in Francia, che oltre tutto era il Paese che lo aveva formato. Era infatti nato a Parigi nel 1874 e lì era vissuto fino alla morte del padre, quando aveva dieci anni. Due anni prima la madre amatissima (tenne la sua foto sul comodino per tutta la vita) era morta di parto; per cui il ragazzino «francese» fu mandato in Inghilterra e affidato a uno zio prete. Sviluppò una forte balbuzie, motivo di scherno da parte dei compagni di scuola, ma fu uno studente brillante, bravissimo nella scrittura.
Finite le superiori, non andò all’università e si iscrisse al St Thomas, scuola «professionale» di medicina di Londra, con tanto di pratica negli slum londinesi. È da quell’esperienza che emerse il suo primo libro, Liza of Lambeth, un romanzo naturalista, alla Zola, che racconta la storia di un’operaia, sedotta, maltrattata, abbandonata, che muore di parto. La buona riuscita del romanzo lo convinse a lasciare la medicina per la scrittura; ma il vero successo arrivò più tardi, con il teatro. Dall’inizio del Novecento, per più di vent’anni, i suoi drammi, tradizionali ma ben costruiti, furoreggiarono nei teatri londinesi, facendone un autore ricchissimo.
Agente segreto
Tra un dramma e l’altro scrisse il suo romanzo più bello, Schiavo d’amore, pubblicato cento anni fa, nel 1915, e portato sullo schermo tre volte, prima con Bette Davis, poi con Eleanor Parker e infine con Kim Novak nel ruolo della protagonista (tutte e tre americane: la più brava fu Bette Davis, la più «inglese» Eleanor Parker, la più sexy Kim Novak). Il romanzo, seguendo le tappe della vita di Maugham (e con uno sguardo al David Copperfield di Dickens), racconta la storia del giovane Philip, medico, con un piede equino (al posto della balbuzie dell’autore), che si innamora perdutamente di Mildred, una cameriera, che lo sfrutta, lo deride, lo umilia, lo tradisce sistematicamente. Quando finalmente decide di lasciarla, la donna gli distrugge la casa. Mildred diventerà una prostituta, ma per Philip ci sarà un lieto fine. A proposito di autobiografia à la Proust: Mildred era in realtà un giovanotto di cui Maugham era stato amante.
Ma quello era il passato. C’era la guerra e lo scrittore, troppo vecchio per l’esercito, si arruolò nella Croce Rossa. Poi, nel 1917, fu reclutato dai Servizi segreti e mandato in Russia. Sasha Kropotkin, la figlia dell’anarchico Kropotkin, con la quale anni prima, a Londra, aveva avuto una breve relazione, lo fece entrare in contatto con Kerenskij, il capo del traballante governo russo. Da lui ricevette una drammatica richiesta d’aiuto al premier inglese, che Maugham prontamente comunicò. Restò inascoltata. Ma in ogni caso era troppo tardi: poco dopo scoppiò la rivoluzione. Da quell’esperienza nacque Ashenden, il libro da cui muove il moderno romanzo di spionaggio inglese: un piccolo gioiello, antiretorico, scettico, consapevole del cinismo del potere.
L’esatta pronuncia
Il vertice dell’opera di Maugham è costituita dai suoi splendidi racconti. Il più famoso è Pioggia, apologo della paura puritana della sessualità, che divenne film prima con Joan Crawford e poi con Rita Hayworth. Molti altri sono altrettanto belli, in particolare quelli ambientati nelle colonie britanniche, con la formidabile rappresentazione degli uomini e delle donne che furono gli ultimi interpreti dell’impresa coloniale, ridicolizzati per le loro debolezze e tacitamente ammirati per la loro capacità (quando l’avevano) di fare bene, in quei luoghi altri, ciò che da loro si aspettava facessero.
Ma l’universalità di quelle storie, raccontate in una prosa di una limpidezza e fluidità esemplari, sta nella capacità di Maugham di trascenderne il contesto per offrire una serie di folgoranti ritratti della nostra natura più vera. I nostri professori, che quasi tutti ne pronunciano il nome in modo sbagliato (la pronuncia giusta è Mom), in genere lo ignorano. Perché ignorano che è un narratore grandissimo, degno di Cechov e di Maupassant.Paolo Bertinetti
Cinquant’anni fa, il 16 dicembre, nella splendida villa La Moresque sulla Costa Azzurra, si chiudeva la lunga vita di William Somerset Maugham, il più elegante narratore inglese del Novecento. Circondato dalla sua splendida collezione di quadri, accudito dal suo “segretario” Alan Searle, il suo compagno degli ultimi vent’anni, era però un vecchio amareggiato, confuso, avvilito, ripudiato dai soci del suo Garrick Club, indignati per come nell’autobiografia pubblicata tre anni prima aveva (s)parlato della figlia e della moglie, che aveva sposato nel 1917 e lasciato una decina di anni dopo.
Maugham diceva che aveva cercato di convincersi di essere “per tre quarti normale e per un quarto omosessuale”, ma che era vero il contrario. Cittadino di un Paese in cui l’omosessualità era reato, aveva deciso di tenere un basso profilo e anche per questo, dal 1926, aveva scelto di vivere in Francia, che oltre tutto era il Paese che lo aveva “formato”. Era infatti nato a Parigi nel 1874 e lì era vissuto fino alla morte del padre, quando aveva dieci anni. Due anni prima la madre amatissima (tenne la sua foto sul comodino per tutta la vita) era morta di parto; per cui il ragazzino “francese” fu mandato in Inghilterra e affidato a uno zio prete. Sviluppò una forte balbuzie, motivo di scherno da parte dei compagni di scuola, ma fu uno studente brillante, bravissimo nella scrittura.
Finite le superiori, non andò all’università e si iscrisse al St Thomas, scuola “professionale” di medicina di Londra, con tanto di pratica negli slum londinesi. È da quell’esperienza che emerse il suo primo libro, Liza of Lambeth, un romanzo naturalista, alla Zola, che racconta la storia di un’operaia, sedotta, maltrattata, abbandonata, che muore di parto. La buona riuscita del romanzo lo convinse a lasciare la medicina per la scrittura; ma il vero successo arrivò più tardi, con il teatro. Dall’inizio del Novecento, per più di vent’anni, i suoi drammi, tradizionali ma ben costruiti, furoreggiarono nei teatri londinesi, facendone un autore ricchissimo.
Tra un dramma e l’altro scrisse il suo romanzo più bello, Schiavo d’amore, pubblicato cento anni fa, nel 1915, e portato sullo schermo tre volte, prima con Bette Davis, poi con Eleanor Parker e infine con Kim Novak nel ruolo della protagonista (tutte e tre americane: la più brava fu Bette Davis, la più “inglese” Eleanor Parker, la più sexy Kim Novak). Il romanzo, seguendo le tappe della vita di Maugham (e con uno sguardo al David Copperfield di Dickens), racconta la storia del giovane Philip, medico, con un piede equino (al posto della balbuzie dell’autore), che si innamora perdutamente di Mildred, una cameriera, che lo sfrutta, lo deride, lo umilia, lo tradisce sistematicamente. Quando finalmente decide di lasciarla, la donna gli distrugge la casa. Mildred diventerà una prostituta, ma per Philip ci sarà un lieto fine. A proposito di autobiografia à la Proust: Mildred era in realtà un giovanotto di cui Maugham era stato amante.
Ma quello era il passato. C’era la guerra e Maugham, troppo vecchio per l’esercito, si arruolò nella Croce Rossa. Poi, nel 1917, fu reclutato dai Servizi segreti e mandato in Russia. Sasha Kropotkin, la figlia dell’anarchico Kropotkin, con la quale anni prima, a Londra, aveva avuto una breve relazione, lo fece entrare in contatto con Kerenskij, il capo del traballante governo russo. Da lui ricevette una drammatica richiesta d’aiuto al premier inglese, che Maugham prontamente comunicò. Restò inascoltata. Ma in ogni caso era troppo tardi: poco dopo scoppiò la rivoluzione. Da quell’esperienza nacque Ashenden, il libro da cui muove il moderno romanzo di spionaggio inglese: un piccolo gioiello, antiretorico, scettico, consapevole del cinismo del potere.
Il vertice dell’opera di Maugham è costituita dai suoi splendidi racconti. Il più famoso è Pioggia, apologo della paura puritana della sessualità, che divenne film prima con Joan Crawford e poi con Rita Hayworth. Ma molti altri sono altrettanto belli, in particolare quelli ambientati nelle colonie britanniche, con la formidabile rappresentazione degli uomini e delle donne che furono gli ultimi interpreti dell’impresa coloniale, ridicolizzati per le loro debolezze e tacitamente ammirati per la loro capacità (quando l’avevano) di fare bene, in quei luoghi altri, ciò che da loro si aspettava facessero. Ma l’universalità di quelle storie, raccontate in una prosa di una limpidezza e di una fluidità esemplari, sta nella capacità di Maugham di trascenderne il contesto per offrire una serie di folgoranti ritratti della nostra natura più vera. I nostri professori, che quasi tutti ne pronunciano il nome in modo sbagliato (la pronuncia giusta è Mom), in genere lo ignorano. Perché ignorano che è un narratore grandissimo, degno di Cecov e di Maupassant.