la Repubblica, 15 dicembre 2015
Xi Jinping va alla conquista del continente nero
Il presidente Xi Jinping ama gli animali. Nel suo ultimo viaggio in Africa, accompagnato dalla moglie Peng Liyuan, in una settimana ha visitato due zoo e fatto tre safari. Tra Zimbabwe e Sud Africa si è fatto fotografare mentre accarezza giraffe ed elefanti, o mentre segue un branco di leonesse a caccia.
L’ossessione della propaganda del partito-Stato per «l’amore di Papà Xi verso l’Africa», rivela al mondo una realtà ben più matura di un’infantile passione per le bestie esotiche: dopo un corteggiamento durato decenni, la Cina sta completando la conquista economica e politica dell’Africa. Europa e Usa sono impegnate a respingere le ondate migratorie e a combattere contro il contagio del terrorismo islamista nella fascia mediterranea del continente, scontando le colpe storiche di colonialismo e schiavismo.
La Cina invece, non appesantita nemmeno da tradizioni religiose missionarie, avanza silenziosamente a suon di prestiti e contratti miliardari, rispettando la regola diplomatica numero uno di Pechino: la «non ingerenza negli affari interni». Significa che il Dragone paga, costruisce, acquista e commercia senza porre problemi politici o chiedere il rispetto dei valori universali, condivisi dalle grandi democrazie. Risultato: solo 9 Paesi africani economicamente minori, Gambia, Guinea- Bissau, Burkina Faso, Lesotho, Swaziland, Repubblica Centrafricana, Somalia e Somaliland, non possono vantare oggi investimenti cinesi. Per tutti gli altri la Cina è ormai il primo partner commerciale, il primo banchiere, il primo finanziatore di infrastrutture, ma soprattutto il primo sponsor nelle istituzioni internazionali.
Lo scorso anno Pechino ha riservato allo sviluppo africano 222 miliardi di dollari. A inizio dicembre a Johannesburg Xi Jinping ha presieduto il secondo Forum in 15 anni della Cooperazione Cina-Africa, annunciando progetti sostenuti da altri 60 miliardi. Erano assenti solo i leader di Sao Tomè, Burkina Faso e Swaziland, auto-esclusi dal riconoscimento diplomatico di Taiwan.
Il «safari africano» di Pechino, pronto a colmare il vuoto lasciato dalla fine della Guerra Fredda tra Washington e Mosca, presenta oggi un bilancio impressionante: oltre 2.500 progetti avviati e finanziati in 51 nazioni, per un valore superiore a 94 miliardi di dollari. Senza l’appoggio cinese la metà dei bilanci pubblici dei Paesi africani rischierebbe il fallimento, con conseguenze prevedibili per la stabilità interna.
L’ultima missione di Xi Jinping, a inizio dicembre, ha impresso però al grande patto sino- africano un cruciale salto di qualità: dall’intesa economica all’alleanza strategica, politica e militare. All’assemblea generale dell’Onu, in settembre, il presidente cinese aveva annunciato l’invio di un «contingente di pace» di 8mila soldati e lo stanziamento di un miliardo di dollari per sostenere la prima missione internazionale di Pechino, inaugurata tre anni fa contro la pirateria al largo del Corno d’Africa.
Nei giorni scorsi il ministero degli Esteri ha confermato invece che la Cina costruirà la sua prima base navale in Africa, a Gibuti. Si tratta della prima base militare cinese all’estero, dell’esordio ufficiale della Cina tra le super- potenze belliche globali. La scelta è chiara: Gibuti ospita già basi di Usa, Francia e Giappone, la stabilità politica dal 1990 lo ha trasformato nell’avamposto straniero contro il terrorismo islamista in Somalia e nel presidio internazionale a difesa delle rotte commerciali tra Oriente e Mediterraneo, attraverso Suez.
Gibuti in Africa vanta però anche un’esperienza unica in approvvigionamento e forniture logistiche per eserciti e sistemi di difesa: costruire una base navale sullo stretto di Bab el-Mandeb, tra Mar Rosso e Oceano Indiano, consentirà a Pechino di blindare i suoi scambi commerciali con l’Africa, diventandone anche il primo alleato militare. Washington, Tokyo e Parigi fino all’ultimo hanno tentato di far naufragare l’avanzata cinese, per mantenere almeno la leadership della pace nel Golfo di Aden, affacciato sulle aree più sensibili del Medio Oriente. Il fatto che la stessa Unione Africana si sia infine schierata a favore della base cinese a Gibuti conferma quanto in profondità si sia ormai spinta l’influenza di Pechino nel continente. Una relazione a prova di crisi. Reduce da Parigi, dove aveva incontrato Barack Obama, Xi Jinping è infatti atterrato ad Harare nel momento peggiore del rapporto Cina-Africa. La frenata della crescita cinese quest’anno ha posto fine al boom delle materie prime, affossando ferro, uranio, rame, legname, petrolio, ma pure quelle necessarie per l’hi-tech.
L’export africano è crollato e i «metodi cinesi» nella conduzione delle imprese e nel rispetto dei lavoratori locali ha scatenato più di una rivolta sindacale, sollevando per la prima volta l’accusa di «neo-colonialismo» anche nei confronti di Pechino. Con Zuma e Mugabe, Xi Jinping ha così messo a punto 10 nuovi progetti di cooperazione, presentati poi al trionfale Forum con gli altri presidenti del continente: dalla prima ferrovia ad alta velocità, tra Dar es Salam in Tanzania e Lobite in Angola, allo sviluppo dei porti di Abidjan in Costa d’Avorio e Maputo in Mozambico; dall’oleodotto tra Gibuti e Ogaden in Etiopia a quello tra Juba in Sud Sudan e Mombasa in Kenya; dagli investimenti agricoli a quelli minerari, dalla costruzione di centrali atomiche e a carbone, dalla finanza al turismo, dall’hi-tech all’industria farmaceutica.
Xi Jinping questa volta non ha però estratto solo il libretto degli assegni: agli alleati delle nazioni in via di sviluppo ha proposto un accordo che punta alla «costruzione di un nuovo sistema mondiale multipolare, sostenibile e giusto», alternativo a quello dominato dagli Usa e sostenuto dalla Ue. In cambio l’erede di Mao Zedong non ha offerto tassi agevolati sui prestiti, ma ha chiesto l’appoggio politico alla Cina nelle istituzioni mondiali, dall’Onu all’Fmi, dalla Wto alle federazioni che gestiscono il globalizzato business dello sport. Lo scambio con l’Africa non è dunque più materie prime-infrastrutture, ma l’esportazione cinese di un modello organizzativo, sociale, economico e militare alternativo a quello dell’Occidente.
Xi Jinping ha detto che la Cina continuerà ad avere bisogno di materie prime e di cibo, ma che la sua priorità oggi sono «nuovi mercati, alleanze strategiche e nuovi centri di produzione energetica». Proprio Pechino, superando l’India, ha strappato a Parigi i finanziamenti per rendere sostenibile l’eco-compatibilità africana: e proprio Xi Jinping, esibendo la «negoziazione alla pari», ha ottenuto dai capi di Stato dell’Africa la promessa che appena lo yuan sarà pienamente convertibile, la casse del continente si svuoteranno di dollari e di euro per adottare il renminbi come valuta di riserva, se non addirittura come valuta di Stato. Le 5 colonne del nuovo «partenariato strategico globale» Cina-Africa sono «fiducia politica, cooperazione economica, influenza culturale reciproca, sicurezza e coordinamento internazionale».
L’immagine del nuovo imperatore cinese Xi Jinping che abbraccia un rinoceronte, circondato da pastori zulu che ballano, può far sorridere. I leader di Europa e Usa, nelle stesse ore, stavano però fronteggiando gli attacchi terroristi a Parigi e in California. Il Quotidiano del Popolo ha sintetizzato la coincidenza con l’editoriale: “La Cina lavora, l’Occidente combatte”. L’Africa “cinese” non è più lo specchio, forse irreversibile, del fallimento occidentale: sancisce che il secolo di Pechino, per tutti, è già cominciato.