la Repubblica, 15 dicembre 2015
La questione tedesca, la solitudine della Merkel e l’Europa che potrebbe scoprire di aver superato il punto di non ritorno verso uno storico fallimento
Negli anni a venire la Germania dovrà essere un paese «aperto, curioso, tollerante e attraente»: con un discorso tenuto ieri al congresso della Cdu a Karlsruhe definito storico dai commentatori, Angela Merkel ha risposto ai suoi critici, riaffermato la sua indiscussa leadership sul partito, sul governo e sul paese e ribadita la sua convinzione che per quanto riguarda l’accoglienza dei profughi non è né possibile né necessario indicare un tetto massimo. La Cancelliera resta dunque dell’idea che Germania «ce la farà» ad affrontare questa sfida epocale.
La nazione che dalla fine dell’Ottocento era stata la “croce” del Vecchio continente ne costituisce oggi il corestability, il fondamentale fattore di stabilizzazione geopolitica. È come se quella che era stata la”questione tedesca” si presentasse di nuovo ma col segno rovesciato. Dopo aver impedito, anche grazie all’azione di Mario Draghi, il fallimento dell’euro nella crisi che aveva contrapposto i paesi del Nord a quelli del Sud d’Europa, la Merkel ( col sostegno della Spd) è riuscita nel non facile compito di tenere unita l’Europa di fronte alla sfida neo-imperiale di Putin in una “nuova guerra fredda” che rischiava di contrapporre i paesi dell’Est a quelli dell’Ovest.
Certo il combinato disposto di minaccia terroristica e di afflusso incontrollato dei profughi dal Medio Oriente ha messo in fibrillazione il “cuore tedesco” del Vecchio continente. E sta dividendo la società tedesca in grande affanno dinnanzi al gigantesco impegno di integrare qualcosa come (questa la previsione per la fine del 2015) un milione di profughi. Inoltre la necessità di restare solidale con la Francia nonostante la scelta ( accettata ma non condivisa) di Hollande di rispondere con la guerra all’attacco terroristico e l’urgenza di ottenere, pagando un prezzo politico e di immagine non irrilevante, il sostegno del premier turco Erdogan per limitare l’afflusso dei profughi, ha portato anche una politica assolutamente pragmatica come è la Merkel ai limiti della sua flessibilità.
Diversa è invece la situazione della Spd come conferma la sconfitta politica e personale subita dal suo leader Sigmar Gabriel al congresso del partito che si è tenuto lo scorso fine settimana a Berlino. Una sconfitta che è ennesima conferma del ‘male oscuro’ che affligge tutta la sinistra europea, incapace di trovare una mediazione tra spinte identitarie e imperativi di governo.
Ma la realtà tedesca resta una eccezione. Nel resto d’Europa è tutta un’altra musica. Ed è più che fondato il timore che essa rischi la sua disunione politica e culturale: come capitò ai “sonnambuli” che scivolarono senza neppure averne consapevolezza nella Prima guerra mondiale, gli europei potrebbero uno di questi giorni scoprire di aver superato il punto di non ritorno verso uno storico fallimento.
Un fallimento che appare tanto più paradossale in quanto i governi dei singoli paesi pensano di trovare soluzioni nazionali a sfide che sono essi stessi poi a definire globali condannando in tal modo i loro paesi e l’intera Europa a un declino irreversibile. Il nuovo primo ministro polacco Beata Szydlo ha ordinato di togliere la bandiera della Ue dal palazzo in cui terrà le sue conferenze stampa per sottolineare la preminenza che il suo governo darà agli “interessi nazionali”. Dopo quello ungherese di Viktor Urban, dunque, anche quello polacco assieme a quelli socialdemocratici della Repubblica céca e della Slovacchia ha deciso che è arrivato il momento di opporsi ai «diktat di Bruxelles» e all’«imperialismo culturale di Berlino». Di innalzare nuovi muri e di invertire la rotta di quel “ritorno in Europa” invocato dopo il 1989 da Vaclav Havel, György Konrad o Adam Michnik per sanare i mali causati da mezzo secolo di totalitarismo sovietico. Però gli stessi paesi che si oppongono a una soluzione europea del dramma dei rifugiati pretendono di conservare i vantaggi materiali che avevano ottenuto grazie all’allargamento ad Est: dagli aiuti economici alla libera circolazione garantita dal trattato di Schengen.
Ad ovest del Reno la retorica degli antieuropeisti guidati dal Front National di Marine Le Pen non è molto differente da quella urlata ad est dell’Oder/ Neisse. Del resto l’anti-europeismo francese ha storia. Fu la Francia che fece fallire nel 1954 il progetto di difesa comune europea, di cui oggi avremmo un disperato bisogno e un referendum francese ( assieme a quello olandese) nel 2005 impedì l’approvazione di una costituzione europea. E quello che succede oggi ( compresa la sconfitta al secondo turno) in Francia è già successo nel 2002, quando Le Pen padre riuscì ad andare al ballottaggio per la presidenza della repubblica al posto del socialista Jospin: allora non c’era stata la crisi dei debiti sovrani ( e la austerità imposta dalla ‘cattivissima’ Germania) e nessuno poteva neppure lontanamente sospettare che un giorno Daesh avrebbe minacciato l’Europa.
In Danimarca, nonostante gli attentati di Parigi, un referendum ha detto no a una più stretta collaborazione della polizia con quelle degli altri paesi europei. La Gran Bretagna sembra seriamente intenzionata ad abbandonare l’Europa e intanto cerca di impedire l’ingresso ai cittadini di altri paesi europei. E l’Italia? Il nostro paese potrebbe svolgere un ruolo molto importante rendendo meno problematica la solitudine della Germania, rimettendo sul giusto binario un treno europeo che minaccia di deragliare.
Oggi è il momento di rilanciare il dialogo e la cooperazione italo-tedesca e non certo quello di sterili polemiche con la Germania.