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 2015  dicembre 15 Martedì calendario

Il Washington Post trasloca. Addio alla redazione del Watergate

Dopo 43 anni, il «Washington Post» ieri ha cambiato sede. Il fatto che i suoi giornalisti lavorino in un nuovo edificio che dista 7 minuti a piedi dal vecchio non sarebbe una grande notizia, se non fosse che in quel palazzo al 1150 della 50ª strada due giovani cronisti, un editore e un direttore coraggiosi hanno cambiato la storia americana, costringendo nel 1974 un presidente degli Stati Uniti a dimettersi.
Il tempio del giornalismo Quando verso la fine degli Anni 70 i giornalisti di altre testate andavano in visita al «Post», provavano sempre la sensazione di entrare in un tempio sacro, parlavano a bassa voce e si facevano timidamente indicare le scrivanie alle quali Bob Woodward e Carl Bernstein lavoravano, l’ufficio del direttore Ben Bradlee e quello dell’editore Katharine Graham, la donna alla quale il procuratore generale John Mitchell aveva minacciato di «strizzare le tette in un tritacarne», se avesse fatto pubblicare gli articoli che accusavano Richard Nixon. Ogni metro quadrato di quell’edificio ha ispirato generazioni di giornalisti e ha dato un esempio da imitare alle redazioni di tutto il mondo. Il palazzo, che verrà ora demolito, è tra i più brutti di Washington, un casermone che ricorda l’architettura sovietica, all’epoca molto lontano dagli eleganti edifici art déco dei giornali di New York o di Fleet Street a Londra. Alla fine degli Anni 60, Katharine Graham aveva dato l’incarico a un famoso architetto, Ieoh Ming Pei, di progettare un nuovo edificio per il «Post». Pei ci aveva pensato su quattro anni, spendendo nel frattempo due milioni di dollari del giornale, e aveva alla fine presentato il disegno di un edificio simile a una macchina per scrivere, molto originale, ma del tutto inadeguato. La redazione, gli uffici amministrativi, la tipografia e la rotativa erano così finiti a tre isolati dalla Casa Bianca, nella 50ª strada, in anonimi locali dal soffitto basso pieni di colonne di cemento, illuminati da tristi luci al neon. Eppure, a tutti è spiaciuto lasciare la vecchia sede. Un lungo addioPer giorni si sono tenute commemorazioni, una banda ha suonato tra le scrivanie la «Washington Post March», composta nel 1889 da John Philip Souza, le pareti sono state riempite di disegni e dediche, e Bernstein e Woodward, da tempo in pensione, sono stati invitati a tenere un discorso. Ha cominciato Bernstein, ma il microfono che funzionava male lo costringeva a ripetere ogni frase, fino a quando Woodward lo ha interrotto chiedendogli: «Vuoi che te lo riscriva?». La gag ha fatto molto ridere. È una delle battute che Dustin Hoffman scambia con Robert Redford nel film «Tutti gli uomini del presidente» di Alan Pakula, uscito nel 1976. «Politico», il sito web che vorrebbe fare online quello che il «Post» ha fatto e fa sulla carta, ha criticato l’abitudine del giornale di autocelebrarsi. È vero – ha scritto – che è stato protagonista del Watergate, dei Pentagon Papers e delle rivelazioni di Snowden, ma non è il caso di fare sembrare un banale trasloco l’attraversamento del Mar Rosso o la discesa di Annibale dalle Alpi. Si tratta solo di andare in un edificio più adatto all’online, con un terzo dei giornalisti che c’erano una volta. Il nuovo proprietario, Jeff Bezos, il fondatore di Amazon, sa quello che fa ed è l’uomo più adatto per la transizione dalla carta al digitale. Ma lasciare un edificio nel quale per 42 anni le luci sono rimaste accese 24 ore al giorno e dal quale uscivano ogni notte, nei tempi migliori, un milione di copie, è sempre un trauma, che porta inevitabilmente con sé la sensazione di una gloria perduta. «Ma l’importante – ha ricordato il settantenne Carl Bernstein ai suoi colleghi – non è il luogo nel quale si lavora. L’importante è quello che in quel luogo si fa».