Corriere della Sera, 15 dicembre 2015
Perché l’Isis resiste e resisterà
Come può un’organizzazione terroristica che sembra aver dichiarato guerra al mondo intero sperare di sopravvivere? L’Isis, già affermatosi come il gruppo terroristico meglio finanziato ed equipaggiato e tecnologicamente più sofisticato della storia, non farà grandi conquiste territoriali in Iraq e in Siria nel 2016; eppure è destinato non solo a sopravvivere, ma ad espandere la sua influenza a livello internazionale. E questo per una serie di ragioni.
Innanzitutto, i suoi nemici sono divisi riguardo alla scelta della migliore strategia d’attacco. L’Isis può contare sul sostegno dei sunniti discriminati in Iraq e in Siria. L’accesso a fondi liquidi e la padronanza delle nuove tecnologie sono ancora un punto di forza. Ma il suo principale vantaggio rispetto a gruppi militanti come Al Qaeda e i Talebani risiede in ciò che promette alle sue reclute. Queste ultime, infatti, si vedono offrire molto più della possibilità di lottare contro un nemico lontano, in una guerra lunga e con prospettive incerte. L’Isis propone loro un piano per costruire qualcosa di nuovo e concreto: un impero islamico i cui confini saranno tracciati non dai politici occidentali, ma dai combattenti musulmani.
A ogni nuova atrocità commessa dall’Isis si accompagnano gli annunci, in Europa come in America, di azioni dirette contro i suoi responsabili in Siria e in Iraq. Ma per smantellare l’Isis occorre combattere i suoi guerriglieri sul terreno. Non è possibile distruggerli per via aerea. Nessuno – né gli americani, né i francesi, i russi e così via – è disposto ad accettare i costi in termini di sangue e di denaro che una simile operazione comporterebbe.
Anche nel caso dell’offensiva aerea, i principali nemici dell’Isis hanno obiettivi diversi. Gli Stati Uniti sganceranno molte più bombe, ma il presidente Obama non ha alcuna intenzione di coinvolgere le truppe Usa in un nuovo conflitto di terra in Medio Oriente. La Russia mira principalmente a rafforzare il suo alleato, il presidente siriano Bashar al Assad, attaccando i ribelli sostenuti dagli Usa e dai sauditi; ha fatto ben poco per colpire l’Isis. La Turchia concentrerà i suoi attacchi sui curdi siriani, e i francesi non hanno una coalizione da guidare. I combattenti iraniani sono male armati, e gli Stati del Golfo non dispongono di truppe di terra.
In Iraq, il governo a guida sciita di Bagdad non otterrà alcun successo concreto nella lotta all’Isis finché non offrirà ai sunniti iracheni l’opportunità di partecipare al futuro del Paese e una ragione per cui combattere al suo fianco. Al momento della deposizione di Saddam Hussein, le forze Usa hanno emarginato i sostenitori del partito Baath, anche nell’esercito. Solo l’Isis ha fornito a quella fetta di popolazione sunnita uno strumento di riscatto. Finché tale problema non sarà affrontato, l’Isis manterrà la sua presa sul territorio iracheno a maggioranza sunnita. Inoltre, l’Isis e i suoi affiliati dispongono di un vastissimo campo d’azione. La Siria, l’Iraq, la Libia, lo Yemen e l’Afghanistan sono Stati più o meno «falliti», ognuno dei quali offre aree incontrollate che ben si prestano a ospitare rifugi sicuri e centri di addestramento di militanti. Nel nordest della Nigeria, nel nord del Mali e nel Sinai egiziano proliferano le nuove leve intente ad apprendere il mestiere. E i campi profughi disseminati in Turchia, Giordania e Libano costituiscono un terreno fertile di reclutamento.
L’Isis dispone poi di risorse economiche più che sufficienti per coltivare le sue ambizioni. Grazie alla vendita diretta del petrolio estratto dai pozzi sequestrati, ai rapimenti con richiesta di riscatto, ai beni confiscati, alle tasse imposte alle popolazioni locali, al sostegno finanziario degli alleati nel Golfo Persico, e al saccheggio di banche nelle città irachene conquistate, l’organizzazione ha accumulato riserve per oltre 1 miliardo di dollari. E ha saputo sfruttare i social media e i messaggi cifrati per ampliare a dismisura la sua rete operativa. Soprattutto, l’Isis propone un’idea globale a cui attori regionali come i Talebani e Al Qaeda non sanno rispondere con una valida alternativa. I Talebani restano un movimento di origine Pashtun attivo in Afghanistan e in Pakistan, con scarso appeal al di fuori del suo territorio di riferimento. Al Qaeda, dal canto suo, esprime una visione apocalittica. È più difficile reclutare seguaci di un culto di morte che guadagnare adepti a un’organizzazione che promette la creazione di un impero e ha conquistato ampi territori in due Paesi proprio per rendere tali promesse credibili. La retorica dell’Isis è convincente. «In Siria e in Iraq non avete futuro. In Europa e in America vi escludono perché vi odiano. Venite, c’è un progetto da realizzare. Unitevi alla prima generazione. Vi diamo il benvenuto». Questo appello, e non la semplice opportunità di uccidere chi non è musulmano, continua a riscuotere successo. A cosa porterà tutto ciò? In definitiva, la costruzione dello Stato Islamico è il principale fattore di vulnerabilità dell’Isis. Nessuno può riuscire a eliminare completamente il terrorismo, perché basta un solo individuo disposto a morire per accrescere il potere di questo gruppo sulla scena internazionale. Ma i tanti nemici dell’Isis dispongono di mezzi più che sufficienti per impedirgli di mantenere la promessa di costruire uno Stato a tutti gli effetti. I bombardamenti in Siria sono appena cominciati.
Nel frattempo, però, l’Isis riserverà altre spiacevoli sorprese al resto del mondo. E nel 2016 non potrà che acquistare ancor più influenza.