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 2015  dicembre 15 Martedì calendario

Gridare al fascismo contro la Le Pen non è saggio

Dopo una notte di brindisi e di euforia per la sconfitta del Front National al secondo turno delle elezioni regionali francesi, arriva il giorno delle fredde analisi e di qualche dubbio. Forse non è stato saggio da parte dei socialisti francesi evocare contro il partito della Le Pen schemi da fronte antifascista e scomodare addirittura il rischio di «guerra civile». Quando una formazione politica raggiunge le dimensioni del Front National, il buon senso dovrebbe imporre di continuare sì a contrapporsi politicamente senza tentennamenti ma anche di non ostinarsi a contrastarlo appellandosi all’emergenza repubblicana.  
Le cose oggi in Francia sono molto diverse dall’analogo scontro alle presidenziali del 2002 allorché Jacques Chirac ottenne al primo turno cinque milioni e 665 mila voti (contro i quattro e 800 mila di Jean-Marie Le Pen) e stravinse al secondo conquistandone venticinque milioni e 537 mila (contro i cinque e 525 mila del Front). Adesso Marine Le Pen ha «perso» al Nord con il 42 per cento e sua nipote Marion al Sud (contro il potentissimo sindaco sarkozista di Nizza, Christian Estrosi) con oltre il 45. Tredici anni fa sì che era giustificato l’appello alla resistenza anche perché davvero il partito dell’estrema destra francese si presentava come erede di Vichy e nostalgico dell’Oas. Nel 2002, dal primo al secondo turno Chirac quintuplicò i suffragi, Le Pen li aumentò di poco.  
Oggi quel che è uscito dalle urne è stato di proporzioni ben diverse, anche in virtù del fatto che quello di Marine Le Pen non è più il partito di suo padre: conserva ancora tratti odiosi di insofferenza verso gli immigrati, ma si distingue per una legittima (ancorché non condivisibile) avversione nei confronti delle élite dominanti, dei poteri finanziari e dell’Europa. In ciò che rappresenta e per lo spirito diffuso nel suo elettorato, appare assai più simile al Movimento Cinque Stelle che alla Lega. Ancor più se si considera l’indisponibilità (che li fa diversi dai seguaci di Salvini) ad allearsi con il partito più prossimo: quello di Sarkozy in Francia, quello di Berlusconi in Italia. 
È dunque il movimento di Casaleggio ad essere destinato a raccogliere il testimone di questa staffetta europea dei partiti anti-sistema. Con un notevole vantaggio per gli adepti di Grillo che al secondo turno possono pescare elettoralmente nella maggioranza e nell’opposizione tradizionali, anche con un «concorso attivo» delle forze presentatesi alla prima prova ed escluse al secondo passaggio. In particolare, come già si può intravedere, quelle della sinistra più radicale. Per questo chi ha a cuore un buon funzionamento delle istituzioni (soprattutto in un momento come l’attuale di fortissime tensioni internazionali) dovrebbe sì continuare a tifare per la squadra politica del proprio cuore ma altresì evitare ogni eccesso di esorcismo nei confronti degli anti-sistema. E non nella speranza che, conquistato il diritto di amministrare qualche importante città, mostrino (come è accaduto a Parma, Livorno, Venaria, Assemini, Quarto, Porto Torres, Augusta, Bagheria, Gela, Pomezia, Ragusa e Civitavecchia) una qualche difficoltà a tradurre in realtà le ricette miracolistiche della campagna elettorale. Ma perché è incauto lasciare un partito di quelle proporzioni fuori dal recinto delle responsabilità, consentendogli di crescere senza doversi mai misurare con i concreti problemi di governo.  
A convalida di questa tesi ci si può rifare ad un precedente. Fu indiscutibilmente saggio da parte della Democrazia cristiana «arrendersi» nel 1970 alla decisione di istituire le Regioni a statuto ordinario. Era quella una delle stagioni più difficili della storia d’Italia, a ridosso della seconda scissione socialista, dell’autunno caldo, della strage di Piazza Fontana. A dire il vero, che le Regioni avessero una vita a sé era previsto dall’ottava disposizione transitoria della Costituzione. Quella disposizione, però, prescriveva che il tutto fosse realizzato nel giro di dodici mesi dall’approvazione della Carta stessa, cioè entro il 1948; poi erano passati ventidue anni senza che se ne facesse niente, cosicché avrebbero potuto trascorrerne altrettanti prima che si procedesse all’attuazione di quella norma. Si sarebbe potuto, insomma, soprassedere ancora per decenni, anche in considerazione del fatto che fino a quel momento i partiti anticomunisti avevano deciso di lasciar perdere non perché distratti, bensì per il fatto che non volevano, in piena Guerra fredda, consegnare al Partito comunista italiano l’Italia centrosettentrionale. Erano cioè consapevoli, Dc e partiti centristi, che istituendo le Regioni avrebbero assegnato quell’area (Toscana, Emilia-Romagna e Umbria) ad un Pci ancora legato a quell’Unione sovietica che appena due anni prima aveva invaso la Cecoslovacchia; allo stesso modo sapevano che, con quell’operazione, avrebbero messo in tensione il Partito socialista italiano, partner di governo nella instabile compagine guidata da Mariano Rumor dal momento che, inevitabilmente, in quelle regioni il Psi avrebbe dovuto «scegliere» di tornare all’intesa con i comunisti. Ma procedettero ugualmente. Sicché il Pci, partito di opposizione, e il Psi, partito di governo, conquistarono la Toscana (di cui divenne presidente il socialista Lelio Lagorio), l’Emilia (presidente fu il comunista Guido Fanti) e l’Umbria (con presidente il comunista Pietro Conti). 
Risultato? Da quel passaggio il sistema uscì nel complesso più forte. Il Psi, come previsto, pagò un qualche prezzo al proprio interno, si ebbero disordini imprevisti per la scelta di qualche capoluogo, ma, in compenso, il Pci ebbe poi atteggiamenti responsabili a fronte delle gravi fibrillazioni che negli anni Settanta avrebbero portato l’Italia sull’orlo di un infarto. Dopodiché la Dc rimase in sala di comando per un altro ventennio: la consegna all’opposizione di responsabilità amministrative si rivelò, quantomeno per i democristiani, una mossa oltremodo azzeccata. E, quel che qui più ci interessa, lo fu soprattutto per il Paese.