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 2015  dicembre 13 Domenica calendario

Lisa Gastoni, la donna che rinacque quando smise di fare l’attrice

Lisa Gastoni ricorda che Mario Cecchi Gori, un poco, ambiva: “Il mondo del cinema era convinto che tra noi ci fosse una storia, ma io non l’avrei mai sfiorato neanche con un dito. E glielo dicevo: ‘Devi fartene una ragione, Mario. Non ho nulla contro di te, ma fisicamente non ti sopporto e non riesco ad averti a un metro di distanza’. Lui ascoltava e poi senza cambiare espressione rispondeva soltanto: ‘Cambierai idea’. Era un bruto. Un cafone convinto di potermi comprare. Fece arrivare sotto casa mia un’Alfa Romeo con un mazzo di fiori sul sedile del passeggero e la chiave d’oro dentro. Telefonai immediatamente al concessionario: ‘Venite a prendervi la macchina’. Il proprietario era sconvolto: ‘Ma signora Gastoni, è tutta accessoriata, è l’ultimo modello, c’è anche il mangianastri per la musica’. Non voglio i fiori, non voglio gli accessori e neanche il mangianastri. La aspetto tra mezzora”. Cecchi Gori se la legò al dito. Intimava alle produzioni di non ingaggiarmi: ‘Non vi azzardate’. Mi faceva terra bruciata intorno. Uno sforzo inutile. Con il tempo, in poco tempo, mi ritirai dalle scene spontaneamente e con grande sollievo”.
Lisa Gastoni disse addio a 45 anni, per il dolore di Truman Capote: “È stata la donna più conturbante del cinema italiano”, e di tutti quelli che l’avevano ammirata in oltre 50 film sognando di esserle nipoti in Grazie zia di Salvatore Samperi. “Capote non l’ho mai conosciuto, ma ricevetti un invito a cena da casa Agnelli perché lo scrittore, grande amico di Donna Marella, avrebbe avuto piacere di conoscermi. Dovetti rinunciare e una seconda occasione non ci fu. Se non ritiri certi biglietti, depennano il tuo nome dalla lista”. Lei tolse il suo dai titoli di testa: “E fu liberatorio. Io non ho amato il successo, il perché non l’ho capito. Ho lottato per averlo e quando l’ho ottenuto è subentrata una grande solitudine. Ero a disagio, non ne potevo più. Dissi basta alla vigilia di una lunga e tristissima tournée teatrale con Luigi Squarzina. Andai in camerino e trovai mio marito: ‘Posso venire con te? Non voglio più fare l’attrice’. Pensava scherzassi e invece ero serissima. Sono stata lontana per 23 anni e cinema e teatro non mi sono mancati per un solo istante. Ho imparato a cucinare, a dipingere, a scolpire. Sono tornata a leggere, ho imparato a conoscermi”.
Oggi ha 80 anni. È stato semplice?
Dovevo riempire il tempo. Lo feci compulsivamente. Quando scoprii il legno e imparai a intarsiarlo, cominciai a raccattare rami ovunque. Quando spuntarono ceppi sui divani e tronchi sulla soglia della camera da letto, mio marito Claudio Isgrò, un avvocato che aveva una vita professionale molto incasinata e aveva seguito processi importanti occupandosi di Aldo Moro e di Roberto Calvi rallentò con il lavoro e mi portò a vedere il mondo: “Così non si può andare avanti”. Mettemmo il naso fuori. Viaggiammo per mesi. Fu come rinascere.
Perché recitare equivaleva a morire?
Perché della vita non sapevo più niente. Leggevo solo copioni, passavo da un set all’altro, dominavano disagio e nevrosi. Non ne valeva più la pena.
Era un disagio maturato nel tempo?
Avevo decine di offerte, da Lizzani a Vancini, ma qualcosa si era rotto. Ero aggravata. Oppressa. Nell’ultima scena recitata, uscivo da una tomba. C’era qualcosa di simbolico. Mi guardai intorno e dissi: “È finita. Grazie a Dio è finita”.
Com’era iniziata?
In modo avventuroso. Madre di nobilissima schiatta irlandese e padre poeta di cui ero innamorata con quell’amore speciale che solo le figlie sanno provare per i padri. Lui era un uomo dolce, un antifascista piemontese, una persona inadatta a cui la guerra aveva lasciato ferite profonde. Quando tornò dall’Albania parlava da solo. Vivevamo in Liguria, sul mare, gestendo un albergo di famiglia che mio nonno aveva fatto costruire insieme a molti altri sulla riviera da Bordighera a Sanremo partendo da zero.
Sono ricordi nitidi?
Nitidissimi. La memoria è una cosa strana. Ho cancellato il passato perché nella vita devi viaggiare leggero e se torni indietro non combini più niente. Però certe cose non si dimenticano. L’arrivo dei tedeschi a cavallo, ad esempio. I nazisti erano nudi, galoppavano nell’acqua. Scesero dalla sella e fecero il bagno. Io guardavo attonita e mia madre che era intelligentissima mi tenne la mano sussurrando: “Everything is under control”. Mio padre, pessimista di natura perché i poeti sono tutti tristi, ai fascisti resistette fin quando fu possibile.
E poi?
Era stato nominato podestà del borgo da nostro zio Pinotto, fascistissimo. Per qualche tempo si prestò alla recita e poi un bel giorno del ’39, decise che Mussolini non era solo un innocuo deficiente, ma un deficiente pericoloso. Impacchettò Fez, stivali e labari e si presentò al Comune per dimettersi. Non fu una grande idea perché il regime era vendicativo e i gerarchetti di provincia punivano i colpi di testa. Mia madre lo appoggiava: “Bravo, hai fatto bene”, però venimmo sbattuti in garage, cacciati dall’albergo e costretti a dormire per terra.
Suo padre era un idealista?
A casa c’erano due quadri. Nelle cornici, il Führer e il Duce a cavallo. Papà non li poteva vedere. E li spostava continuamente dalla sala da pranzo allo sgabuzzino. Mia zia lo rimproverava: “Virginio, non fare il coglione, se i fascisti che frequentano la casa se ne accorgono, tornano e ci ammazzano tutti. Quando vengono a cena, i quadri devono esserci”. Poi restavamo finalmente soli e papà correva a toglierli ridendo: “Al galoppo, al galoppo”. Quella storia purtroppo finì male.
Quanto male?
Dopo l’invasione dell’Austria e della Polonia, capimmo l’aria che tirava. Saremmo dovuti partire, andare in Inghilterra, emigrare. Ma papà era timoroso: “Dove vado? Non parlo inglese, è meglio che stia qui”. Lo presero e lo portarono in un campo di concentramento. I tedeschi uccidevano a caso dopo aver messo gli uomini in fila: “Tu sì, tu no” e simulavano esecuzioni per puro sadismo. Alla terza fucilazione scampata se ne andò con la testa e invecchiò in un sanitario a Londra.
In Inghilterra emigrò anche lei.
Studiai in un collegio cattolico, Il Loreto, a St. Albans. Poi prevalse la curiosità per il teatro. Iniziai in una compagnia sull’Isola di Wight. Molta gavetta. Una settimana lavavi il palcoscenico, l’altra facevi il suggeritore. A insegnarmi tutto, prima che imparassi a camminare con le mie gambe, fu una meravigliosa coppia di caratteristi.
Cosa le insegnarono?
Ad abbassare la testa al momento giusto. Nei teatri c’era un pubblico virulento, simile a quello dell’avanspettacolo descritto da Fellini in Roma: se non convincevi, ti colpivano con i cartocci di fish and chips.
Il primo incontro con il cinema?
Feci la bella ragazza in They who dare con Dirk Bogarde. Sul set c’era anche Akim Tamiroff, simpatico da morire e sposato con una moglie bellissima, proprio lui che somigliava a un bulldog. Mi vide e si avvicinò a Bogarde, “She’s beautiful”. Gli dissi di lasciarmi in pace e non so come a un certo punto venni sbattuta su una parete. Si accese la luce della cinepresa. Capii. Era un provino. Dopo quel giorno fu tutto rapidissimo. Improvvisamente ottenni contratti e proposte di lavoro.
Buone?
C’erano tre categorie molto chiare: serie A, B, e C. Le ho conosciute tutte.
Cosa ricorda del cinema italiano di inizio Anni 60?
Tanti toupet, tante ciglia finte, tanti mantelli, tante partite a carte tra una scena e l’altra. Si parlava di Hollywood sul Tevere, ma il 70 per cento dei film costavano due lire e venivano girati in Jugoslavia o in Tunisia. Io facevo inderogabilmente la regina.
Ha lavorato spesso con Totò.
Iniziai con una gaffe tremenda. Balliamo in scena e mentre danziamo, Antonio diventa serio: “Discendo da antenati nobilissimi”. Lo prendo in giro: “Io dalla Regina d’Inghilterra” e lui ci resta male. Al titolo principesco teneva moltissimo, a casa aveva il trono con il cordone intorno. Era un uomo di una bontà e di una generosità assolute, Totò. Ma chiuso, spaventato di farsi scoprire.
Il regista de Il Monaco di Monza era Sergio Corbucci.
Un romanaccio che mi sfotteva. Gli piaceva canzonarmi, mi riteneva altera.
E lo era?
Ho avuto un’educazione anglosassone. E sono cose che non puoi scrollarti di dosso in cinque minuti. Non ero in grado di parlare in dialetto e lui infieriva: “È arrivata sua altezza”. Io pensavo e forse dicevo: “Ma vai un po’ a fare in culo pure tu”.
Primo matrimonio nel 1961.
Una ragazzata. Mi sposai in Grecia, durò un soffio. L’unico vero uomo della mia vita è stato Claudio. Ce l’ho accanto da decenni.
Nonostante i tanti corteggiatori.
Non mi sono fatta mancare niente. Gli uomini mentono sapendo di mentire. Io l’ho capito presto.
Nastro d’argento e primo grande successo con Carlo Lizzani in Svegliati e uccidi.
Venne a cena due mesi prima di buttarsi dalla finestra. C’era tanta gente. Mi prese da parte: “Possiamo parlare un po’ per conto nostro?”. Ci siamo confessati. Aveva le lacrime agli occhi: “Io ti ho amata, sai?”. Di Carlo ero un po’ innamorata anch’io. Non ce lo siamo mai detti, forse è meglio così.
Cos’altro le disse Lizzani?
“Sai Lisa? Io non ce la faccio più a vivere, non ho più risorse, sono sfinito”. “Non devi dire così, sei stato paziente, puoi reggere ancora”. In fondo la sua carriera era già finita da un pezzo. Allora rilanciai: “Facciamo una cosa insieme?”. Si animò: “Davvero?”. “Ma certo, anche una cosa piccola, anche se non ci danno soldi. Lavoriamo gratis”. Non c’è stato tempo.
Le dispiace essere ricordata soprattutto per Grazie Zia?
Il successo di quel film non l’ho mai capito. Rimane un mistero. Era morboso e bizzarro, ma non avrebbe dovuto fare una lira. Invece, non so come, riempì i cinema.
Come arrivò a interpretare la seduttiva Lea in quel film di Samperi?
Ero sul set de L’ultimo gladiatore di Umberto Lenzi, in Tunisia. Terzo aiuto regista, si agitava un omino con gli occhi azzurri: Enzo Doria, poi coproduttore de I pugni in tasca. Portava il caffè e le sigarette: “Signora, se un domani dovessi produrre un film lei lo farebbe?”. Io ero sotto contratto e dissi di sì per pura gentilezza: “Mi porti un copione, lo leggerò senz’altro”.
E il copione arrivò.
All’epoca ero pagata mensilmente. Ricevevo copioni insulsi, li rimandavo indietro e rifiutando ogni proposta e interpretando un solo film all’anno per contratto, avevo già una solida nomea di pazza irrimediabile.
Veramente?
“La Gastoni è felice solo quando dice no”, sosteneva la mia agente. Debuttavo comprensiva: “La sceneggiatura è bella” e poi al dunque: “Allora il film lo fai?” scappavo sempre: “Neanche per idea”. Fu allora che arrivò il copione, anzi il quaderno di Grazie Zia. Mi folgorò.
Il quaderno?
Samperi tartagliava. Era un uomo piccolo, basso, con i baffetti sottili e una grande intelligenza istintiva: “È il mio primo film e non ci sono soldi”. “Non mi importa, la storia mi piace”. “Dovrà truccarsi e pettinarsi da sola, siamo messi così, purtroppo”. Non c’era una lira che fosse una. Partimmo per Montegrotto Terme. Arrivai in macchina e l’auto, l’unica di tutto il set, divenne in breve taxi per la troupe e deposito per le luci. Per risparmiare, Doria aveva assunto un direttore della fotografia del Centro Sperimentale. Andammo a vedere i giornalieri e scoprimmo il disastro. Tutto buio. Io, un fantasma. Presi Doria da parte: “Enzo, caro, dobbiamo parlare”. Poi telefonai ad Aldo Scavarda, direttore della fotografia ne L’avventura e in Prima della rivoluzione: “Lisa, qual buon vento?”, “Un vento di merda. Mi devi salvare”. Scavarda si precipitò a Montegrotto. Mi vergognavo: “Hai visto che tragedia il materiale?”. “Quale materiale? Io non ho visto niente. Iniziamo oggi”. Grazie zia nacque così.
Rimpianti?
Nessuno. Neanche il mancato premio di Cannes. Mi telefonò Polanski: “Avresti vinto, ma io sto per dimettermi dalla giuria con Louis Malle e Monica Vitti. Chiudiamo. Il Festival finisce qui”. I registi di sinistra nel ’68 erano sulle barricate, l’anno dopo li vidi felici in smoking a ritirare i premi.
Lei è di destra?
Ho sempre votato Pci. Poi hanno scelto Prodi, il più democristiano di tutti e allora ho creduto in Berlusconi. Grande delusione. Il re buffone che si porta in Sardegna le ragazzine per farsele. Non sono moralista: per me puoi andare anche con tre cinesi ogni notte. Ma brutto stronzo?, tu sei il capo, hai una responsabilità. Un contegno minimo devi tenerlo. Berlusconi si è fatto fregare dalla grandeur e non ha capito un cazzo. Peccato perché è capace e anche simpatico.
La sua migliore interpretazione?
Non mi sono mai rivista, non me ne è mai fregato niente. Quando chiudo, chiudo. Mi sono riconosciuta un’unica volta, ne I diafanoidi vengono da Marte, un folle film di Antonio Margheriti. Scendevo da un accrocco con la carta stagnola in testa e il volto coperto. Dissi a mio marito: “Sono proprio io”.
È un paradosso.
Non amare la mia immagine è stata una tragedia. Se fai l’attore, sei fottuto. Ma sono così, non sono mai stata capace di entrare in una stanza e dire: “Eccomi qui”.
Ora è alla quinta stagione della serie L’onore e il rispetto prodotta da Alberto Tarallo, ma al cinema tornò con Cuore Sacro di Ferzan Ozpetek.
Un grande talento, purtroppo è turco.
Come scusi?
Lo stimo tanto, ma è arrogante e molto pieno di sé. Nei suoi film gli uomini sono sempre bellissimi e le donne mostruose. Ma non è per il taglio di alcune mie scene che non ci siamo amati. È per carattere. Siamo troppo diversi. Al secondo giorno di riprese me ne volevo andare. Sapete cosa diceva mio padre?
Cosa?
“Anche se la chiudi in una stanza, Elisabetta sa benissimo quel che succede. Sa guardarsi intorno”.