Avvenire, 13 dicembre 2015
Controstoria dell’occupazione del Virgilio. La lettera di una professoressa
Gentile direttore,
insegno al Virgilio dal 2000 e forse, in questi quindici anni solo per un anno la scuola ha saltato l’appuntamento autunnale con l’«occupazione». Sono state occupazioni diverse, dirigenti e studenti si sono avvicendati, alcuni tra noi docenti, invece, sono stati e sono tuttora gli stessi spettatori partecipi di tali eventi.
L’occupazione di quest’anno è stata però diversa. Mai si è cominciato di pomeriggio, con la scuola quasi vuota, senza un’assemblea che l’approvasse, incappucciati e irriconoscibili.
Mai tale evento è balzato nelle cronache nazionali dei quotidiani, o sui Tg nazionali in prima serata. Mai il sottosegretario all’Istruzione è stato interpellato ed è intervenuto direttamente.
Cominciamo dai fatti. Per quindici giorni (più gli inevitabili giorni di strascico), un’istituzione pubblica è stata bloccata nello svolgimento della propria attività: fossero bloccati allo stesso modo un ospedale, una stazione ferroviaria, un tribunale, grideremmo allo scandalo e le forze dell’ordine interverrebbero subito per ripristinare la legalità: se accade in una scuola, invece, è normale, evidentemente perché quello che si fa a scuola è un passatempo, un baby sitting istituzionalizzato. E cambiare passatempo non è un gran danno. Se accade poi al Virgilio, liceo storico di Roma, frequentato da figli e nipoti di politici, intellettuali, giornalisti, non solo è normale l’occupazione, ma anormali sono il nostro sdegno, la ferita ricevuta al nostro ruolo, l’auspicio di poter ritornare a “fare scuola”.
Il Virgilio, però, non è solo “il liceo del centro”. Accanto ai “figli e nipoti di”, siedono coloro per i quali (ma no!?!) la scuola costituisce ancora un’occasione, l’occasione. Ragazzi che vengono da Ladispoli, Ostia, Primavalle ai quali non basta attraversare una strada o al massimo un ponte sul Tevere per raggiungere la scuola: ragazzi che trascorrono un’ora sul treno o sull’autobus per venire a sentire quello che noi insegnanti abbiamo da dirgli. Per loro la scuola deve ricominciare a funzionare.
Ci sono ragazzi dai cognomi impronunciabili perché pieni di consonanti (da dove verranno?), sono i futuri italiani, fiduciosi che la scuola italiana dia loro una chance in più. Per loro la scuola deve ricominciare a funzionare.
Ma anche per “quelli dai cognomi noti” la scuola deve riprendere, perché se anche loro rimarranno noti come i loro padri e i loro nonni, si ricordino che ciò che è patrimonio comune si difende, anche per cambiarlo, e che il potere non significa arroganza e dimenticanza di chi non ha parola.
Anche per noi insegnanti la scuola deve ricominciare a funzionare. Perché ogni lezione comincia con un “riconoscimento reciproco”, nel quale i nostri occhi incontrano quelli degli studenti, e sperano di illuminarli con quella che Aristotele chiamava “la meraviglia” (i genitori che tentano di insegnarci il mestiere sono gelosi di questo?). Tale riconoscimento non è possibile con chi si copre il viso, con chi ci dice “tu per me non hai valore, ha valore solo lo spazio, l’edificio che sei chiamato a custodire”.
Paola Orsucci
docente di Filosofia e Storia del Liceo Classico Statale “Virgilio” di Roma
Questa lettera è vibrante e vera. Ed è utilissima. Ringrazio la professoressa Orsucci per averla scritta, e per avermela fatta arrivare. Spero che lasci il segno in chi la leggerà, oggi su queste pagine e domani o, magari, tra undici mesi “incontrandone” le parole sul web.
L’occupazione del “Virgilio” è finita due giorni fa, e anch’io mi auguro che sia rapidissima la corsa per farlo «funzionare» di nuovo, riaprendolo ai docenti e ai milletrecento “non occupanti” su millecinquecento studenti. Conosco quel grande Liceo, so qualcosa anche dell’inesorabile e diseguale susseguirsi delle occupazioni d’autunno dei suoi spazi. E penso, non da oggi, da padre che ha sempre contato sulla ricchezza del rapporto tra le mie due figlie e i loro insegnanti, che le aule di scuola non sono mai soltanto spazi, ma sono anche preziosissimo tempo: tempo di vita e di crescita, radice di tempo futuro, del quale nessuno dovrebbe tentare di impadronirsi: né per tanto né per poco. Il tempo – e soprattutto il tempo della formazione – si può solo condividere e coabitare, meglio se con passione, certo con tutto il possibile rispetto.
Comunque, il mio giudizio su questa specifica occupazione coincide sostanzialmente con quello di Francesco Delzio, che sabato 5 dicembre, facendo eco alle parole della madre di una studentessa del “Virgilio”, ha scritto sulle nostre pagine di «rito-feticcio» ormai totalmente «inutile» e «diseducativo». Due aggettivi che trovano perfetta spiegazione nell’argomentazione serrata e coinvolgente della professoressa Orsucci. Ecco perché contribuisco con convinzione a rilanciarla. È come un buon seme, sono sicuro non l’unico sparso da questa insegnante e dai suoi colleghi. Che porti frutto.