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 2015  dicembre 12 Sabato calendario

Le conseguenze della sentenza Bosman

Nell’ottobre del 1981, negli ottavi di Coppa dei Campioni, la Juventus fu sorteggiata contro l’Anderlecht. La squadra di Bruxelles era all’epoca ai vertici del calcio europeo e sui giornali italiani, con un misto di ammirazione e invidia, veniva invariabilmente descritta come una multinazionale. Ben otto stranieri obbedivano agli ordini dell’allenatore slavo Tomislav Ivic, che per di più poteva contare su un’ampia rosa di 22 giocatori.
I torinesi avevano un organico assai più ridotto e nella gara del Parc Astrid portarono in panchina giocatori da meno di dieci partite all’anno, fra cui l’ex ct Cesare Prandelli, un cui errore difensivo propiziò poi la rete che sarebbe costata l’eliminazione ai bianconeri. L’unico forestiero era l’irlandese Liam Brady, arrivato l’anno prima dall’Arsenal, quando la serie A aveva riaperto le frontiere dopo 14 anni di autarchia.
Per un curioso caso del destino, proprio le vicende di un centrocampista belga avrebbero ridicolizzato quelle caratteristiche dell’Anderlecht che parevano così eccezionali.
Jean-Marc Bosman militava nel Liegi quando il suo contratto venne a scadenza nel 1990. Il calciatore trovò una nuova sistemazione al Dunkerque, un club francese di seconda divisione, ma il Liegi giudicò insufficiente la contropartita in denaro e si oppose al trasferimento. Confinato nella formazione giovanile e con l’ingaggio drasticamente ridotto, Bosman denunciò il caso alla Corte di Giustizia europea per restrizione del libero commercio. Fu ostracizzato e dovette viaggiare fino all’Isola di Reunion, nell’Oceano Indiano, per racimolare un misero ingaggio.
Infine, il 15 dicembre 1995, la Corte gli diede ragione. Il pronunciamento dei giudici sancì che la richiesta di compensi per la vendita di calciatori a fine contratto era contraria all’articolo 39 del Trattato di Roma, perché erigeva indebite barriere alla libera circolazione dei lavoratori. Inoltre, furono dichiarati illegittimi i vincoli posti al tesseramento degli stranieri comunitari.
Si trattò di due rivoluzioni. Gli organici delle squadre, già in crescita per la politica berlusconiana di acquistare giocatori anche solo per sottrarli alle concorrenti più temibili, esplosero, e i costi con loro. Quanto agli stranieri, in Italia, da 67 che erano nel 1995, diventarono 99 l’anno dopo; arrivarono a 198 nel 2001 e continuarono ad aumentare: il 36% del totale l’anno del Mondiale dell’Italia di Marcello Lippi e, dopo una progressione vertiginosa, il 56,5% nella stagione in corso.
Secondo i dati del Centro Internazionali di Studi sullo Sport, di stanza all’università di Neuchâtel, solo la Premier League ne conta di più, con oltre il 59%, mentre Spagna e Germania sono attestate rispettivamente sotto il 40% e al 45,9%.
Fra i primi dieci club europei più cosmopoliti, addirittura sei sono italiani. Logico corollario sono la perdita di competitività delle selezioni nazionali e il deperimento dei vivai.
La scorsa estate, Greg Dyke, il presidente della federazione inglese il cui ultimo e unico alloro internazionale risale alla Coppa Rimet casalinga del 1966, ha chiesto alla Commissione Europea di incrementare le quote minime di giocatori provenienti dai vivai. La proposta, pur spalleggiata dall’Uefa e a mezza bocca condivisa da altre federazioni (la Figc ha alzato il numero minimo di ragazzi prodotti dal vivaio e fissato a 25 il tetto massimo di calciatori per squadra), non ha finora prodotto alcun risultato.
Più dell’ovvia opposizione dei club, pesa l’invisibile ma invalicabile muro ideologico del pensiero unico, secondo cui nessun intralcio deve essere frapposto al pieno dispiegarsi delle forze del libero mercato.
Se è forse esagerato porre la sentenza Bosman all’origine del calcio come lo vediamo oggi, è innegabile che da quella data tendenze appena abbozzate o agli albori hanno preso forza e si sono cristallizzate in dati di natura apparentemente incontrovertibili.
La commercializzazione e la globalizzazione esasperate, il primato della componente economico-finanziaria sui valori tecnico-tattici, lo strapotere delle televisioni, hanno tutti conosciuto incrementi clamorosi e, insieme all’ingrossamento delle legioni straniere e allo scadimento dei settori giovanili, si sono coagulate nel «precipitato agonistico» rappresentato dall’incolmabile disparità fra pochi e immutabili top team e il resto delle squadre, ormai relegate in ruoli gregari, senza alcuna chance di aggiudicarsi titoli e trofei.
Con un paragone storico-politico, si può azzardare che la sentenza Bosman sta al calcio, e in generale allo sport professionistico attuale, come il Trattato di Maastricht sta all’odierno (dis)equilibrio economico-finanziario dell’Europa globalizzata: l’una e l’altro hanno tracciato la cornice regolamentare entro la quale dominano la disuguaglianza e i crescenti divari di reddito, potere e opportunità, con analoghi attentati alla qualità della democrazia.
Se si accetta la similitudine, pochi segni di un deterioramento della «democrazia sportiva» sono più allarmanti della riduzione dell’imprevedibilità dei risultati.
Negli ultimi venti anni, solo cinque squadre hanno vinto lo scudetto, contro otto dello stesso periodo precedente; similmente, undici formazioni hanno conquistato la Champions League dal 1996, tre in meno di quelle che lo fecero nel ventennio fino al 1975.
Simili tendenze si registrano anche in Premier League e, ancora più marcate, in Bundesliga.
Certo non giova alla variabilità degli esiti, e nemmeno alla trasparenza dei campionati, l’ultimo frutto avvelenato della sentenza Bosman, vale a dire l’ingresso nelle compravendite della finanza speculativa, attraverso il protagonismo di fondi di investimento e di procuratori onnipotenti (come il portoghese Jorge Mendes o l’italo-olandese Mino Raiola), che posseggono e gestiscono i diritti di centinaia di giocatori e allenatori di squadre diverse, fatalmente esposte a pericolose limitazioni della propria autonomia.
Contro questo fenomeno, si sono spesi la Uefa e addirittura Jean-Claude Juncker, il presidente della Commissione europea, secondo il quale sorgono rischi di inquinamento delle competizioni, di riciclaggio di denaro sporco e di violazione dei diritti umani di calciatori deboli e poco noti, preda di intermediari misteriosi e impersonali.
Se non tutto può essere ammesso in nome della salvaguardia delle libertà economiche, ha concluso Juncker (fra l’incredulità, si immagina, dei cittadini greci, vittime di misure di austerità di stampo ultra-liberista), siamo forse all’origine di un’inversione di tendenza dei principi commerciali dominanti, almeno in campo sportivo? Lo abbiamo chiesto a Pippo Russo, sociologo dell’università di Firenze e attento analista del lato oscuro del calcio globale: «In origine, la sentenza Bosman fu salutata come una conquista di civiltà, poiché liberò i calciatori da forme inique di dipendenza contrattuale. Purtroppo, il quadro è degenerato: la parossistica importazione di calciatori, anche assai mediocri, decreta la morte delle scuole nazionali e fa ritenere che le società siano guidate meno da preoccupazioni di ordine tecnico e più da dubbie esigenze di spostamento di denaro, mentre l’incontrastata supremazia delle logiche finanziarie è sfociata nella mercificazione di essere umani. La Fifa se n’è accorta, proibendo ai fondi d’investimento di controllare i diritti economici dei calciatori, e la Ue pare seguire. Le parole di Juncker dimostrano che lo sviluppo del diritto comunitario, tutto centrato sulla tutela delle libertà di mercato, sperimenta una battuta d’arresto, che può preludere all’avvio di un processo di bonifica dagli eccessi economico-finanziari». Se così sarà, se la salvaguardia dei profili di cittadinanza e degli ideali etici e sociali riprenderà il sopravvento sull’ossessiva tutela dei principi della perfetta concorrenza, non ne beneficerà solo lo sport».