D - la Repubblica, 5 dicembre 2015
A tu per tu con Miuccia Prada
«Voglio una gonna lunga, ma anche corta... L’esercizio di oggi è fare l’ovvio senza fare l’ovvio... Desidererei una cosa un po’ giusta ma anche un po’ sbagliata... Oggi dobbiamo lavorare per tradurre l’idea della miseria che diventa poesia». Ascoltato fuori dal contesto, rubato come quelle intercettazioni che fuggono dai tribunali, il vocabolario intimo di Miuccia Prada è l’ennesima prova della singolarità di un mondo, quello della moda, che ai più superficiali può sembrare autoreferenziale e chiuso in se stesso. Aggiungete il classico ritratto che in molti, in troppi hanno fatto di lei: la stilista di sinistra che andava alle manifestazioni vestita Yves Saint Laurent. Invece no. Questa signora fa a pezzi ogni cliché e tutto quello che si pensa di sapere su di lei. Certo, quando le si attribuisce qualcosa che non le corrisponde, si chiude educatamente nel suo golf, tagliandoti fuori dalla sua attenzione. Ma se intravvede uno spiraglio in chi l’ascolta, allora somiglia a una bambina felice al Luna Park. Le sue idee sono giostre, i discorsi montagne russe. Ma non si scambi la sua passione per un parco giochi: questa Disneyland dell’immaginazione oggi fattura 4 miliardi di euro, è forse il marchio di moda più ammirato del mondo e ha prodotto una Fondazione a Milano che in una manciata di mesi ha reso demodé le istituzioni museali più all’avanguardia di New York, Londra e Parigi.
Com’è nata la sua passione per la moda?
«Da un’immagine che non ha tempo: una signora in campagna, quando ero piccola, con le scarpe grosse e la caviglia sottile. Era così chic che è rimasta con me fino a oggi».
Per molti lei è la stilista che militava nel Pci. Cos’è successo prima?
«È strano, ho una specie di vuoto nella memoria fino ai 15 anni. Da bambina, tutto normale: andavo a scuola, i miei genitori mi volevano bene. Prima del liceo, è come se la mia personalità si adattasse al contesto. Ero una spettatrice. Poi è avvenuto il cambiamento: sono diventata laica e di sinistra, sono uscita dal mio mondo perché mi interessava tutto quello che era diverso da me. La scuola di mimo al Piccolo Teatro, il Partito comunista, l’Unione donne italiane. Mi sono buttata da sola in questi luoghi con la mia curiosità. Io, borghese, più o meno ricca: se lo immagina? Ci voleva coraggio, ma non mi spaventava, perché ciò che mi interessava era vedere cosa c’era là fuori».
E cosa c’era là fuori?
«Un mondo in rivoluzione. Era bellissimo. Ho scoperto di non essere per niente una solitaria. Ho capito di amare il collettivo, che mi piaceva stare in mezzo alla gente. Ancora oggi, adoro entrare in un bar dove nessuno mi conosce. E nel lavoro è anche peggio: non sono più capace di lavorare da sola, voglio stare in gruppo, sentire le altre opinioni. Discuto, ascolto. Ma penso da sola. E quando qualcosa non mi convince, rimugino, analizzo fino all’ultimo dubbio la mattina presto, nel silenzio del mio letto».
Cosa l’ha convinta a continuare il lavoro iniziato da suo nonno, Mario Prada, fondatore del marchio?
«Iniziai a disegnare borse e qualche altro oggetto mentre la mia vita era divisa in due: da una parte c’era l’ambiente politico e culturale che frequentavo, un mondo che detestava la moda. Dall’altra c’ero io, donna, di sinistra, femminista e impegnata nel peggiore lavoro che potessi scegliere, la stilista. Non mi fraintenda: la moda mi piaceva davvero. Ma se non avessi incontrato mio marito, più tardi, non sarei andata avanti».
Patrizio Bertelli. Si dice sia il pezzo di puzzle che le mancava.
«Sì, Bertelli è il mio pezzo di puzzle. L’idea di fare le cose in grande viene da lui. Io gli dissi che non ero ambiziosa. Lui mi rispose: tu sei un mostro d’ambizione. Aveva ragione. Nel 1988 fu lui a insistere per fare una linea d’abbigliamento. Io resistevo perché non volevo espormi né raccontare troppo di me. Poi ho cambiato idea perché se non fai così non riesci proprio a comunicare. Fare una sfilata, poi, fu facilissimo: realizzai tutto quello che mi piaceva e che non trovavo. Per dieci anni mi ero vestita solo di capi vintage e di uniformi da cameriera o da militare».
Il primo show di Prada fu una rivoluzione. Apprezzata da pochi, però.
«Pochi ma intelligenti. Il problema, all’inizio, fu il concetto del brutto. Nel mio lavoro, forse, sono riuscita a introdurre il concetto del brutto nella moda perché era l’unica sfera a non considerarlo. Cinema, arte, letteratura, tutti l’avevano trattato. Il brutto nella moda era ed è difficile da accettare perché c’è ancora il sogno, il cliché della bellezza, del sexy, della donna scollata col suo vestitino tagliato di sbieco. Io detesto i cliché: la bellezza è più complessa e soprattutto più interessante di questo immaginario sterile e noioso. La fortuna di Prada è nata proprio su questa idea».
Poi sono arrivate Miu Miu, la linea Prada uomo e anche la Fondazione. Quest’ultima, un’altra rivoluzione.
«Nei primi anni Novanta abbiamo iniziato a collaborare con gli artisti, ma tenendoli separati dal nostro mestiere. Avevamo degli spazi industriali e alcuni amici ci suggerirono di utilizzarli per una mostra di scultura. Fino a quel momento mi ero nutrita di letteratura, di cinema, di teatro. Lasciando in disparte le arti visive. Così, per 5 anni, io e Bertelli ci siamo messi a studiare l’arte contemporanea. Fin dall’inizio, non si trattò di collezionismo ma di apprendimento: certo, quando qualcosa ti piace e ti aiuta a conoscere, volgarmente ti viene voglia di comprarlo, di possederlo. Ma non è questo il punto: fare un bel discorso astratto e filosofico con un artista è una questione. Lavorarci è un’altra. Il fatto di lavorare insieme ti porta in profondità. E a me piace il fare come strumento del pensiero. Dopo tanti anni di mostre è arrivata la vera scommessa della nuova Fondazione. Ricordo perfettamente il cantiere, qualche giorno prima dell’apertura: nel vuoto, nel silenzio, mi sembrava di essere in un paesino protetto, con un microclima particolare. Un luogo umano dove poter essere liberi. Uno dei complimenti più belli che ho ricevuto è di Herbert Muschamp, critico di architettura del New York Times: “Prada non vende borse, ma idee. E ha creato un mondo più sicuro per le persone sensibili”».
Sono tanti i nomi del mondo dell’arte e della cultura con cui ha collaborato. L’architetto Rem Koolhaas, il curatore Germano Celant, gli aristi Louise Bourgeois e Francesco Vezzoli, solo per citarne alcuni. Cosa le hanno insegnato?
«Tante cose, tantissime cose. La più straordinaria è amare la moda. Quando invece in tanti, in troppi, la disprezzano. La prima domanda che faccio a tutti è: perché piace la moda? E la seconda: perché non piace? Louise Bourgeois mi ripeteva che le persone hanno un rapporto complicato con la moda perché tutti, in fondo, vogliono sedurre. Io non sono d’accordo. La gente parla di ruote, di macchine, di medicine perché in fondo non ti toccano così da vicino come fa la moda. Invece parlare di vestiti è imbarazzante perché significa raccontare delle tue manie, delle tue ossessioni, delle tue debolezze. La moda è un racconto intimo. E una famosa intellettuale americana mi confidò che, a suo parere, viene disprezzata perché ritenuta una roba “da donne”. Praticamente una doppia offesa. La moda è amata da pochi fanatici, da tantissimi intellettuali e dalle teste libere. Il mondo la guarda con sospetto perché la moda è un mondo libero. E io vedo tante, troppe sfere della contemporaneità piegarsi alla conservazione e fare passi indietro verso l’oscurantismo. La moda è libertà intellettuale. Per questo turba e spaventa».
Nell’ultimo anno ha perso Manuela Pavesi, una delle creative che le sono state accanto più a lungo. Come ci si confronta con l’assenza?
«All’inizio, per sopravvivere, ho fatto finta di non pensarci. Ma col tempo, le mancanze saltano fuori. Ti rendi conto che vuoi chiederle dei consigli, dei commenti. E che non puoi, che non c’è più. Per la sua malattia e per altre questioni, ci siamo frequentate poco nell’ultimo periodo della sua vita. Ma Pavesi c’era fin dall’inizio. Mi ricordo quando ci siamo conosciute: eravamo vestite uguali, pantaloni e golf Saint Laurent, entrambe con la stola di volpe della mamma. Se lo immagina? Trovare una vestita come me, io che volevo essere sempre la prima, la più diversa, la più originale. Non potevamo che diventare amiche».
È madre di due figli ventenni. Come vede le nuove generazioni?
«I ragazzi di oggi mi inteneriscono. Hanno di fronte un mondo difficile e poche opportunità. Hanno il compito di reinventarsi da capo. Chi li scambia per ignoranti si sbaglia di grosso: non leggono come facevamo noi, è vero. Ma sono colti. Hanno trovato una nuova maniera di informarsi. Quando mi chiedono come avere successo, come farsi strada, rispondo come quando le donne mi chiedono come essere eleganti: studiate! Studiate tutto, studiate di più. Dovete sapere tutto di quello che vi appassiona. Prendete, per esempio, l’artista Francesco Vezzoli. In tanti si chiedono come faccia a scritturare attrici così famose per i suoi film e le performance. Vezzoli sa tutto, studia tutto su questi personaggi. E loro non possono che dirgli di sì quando lui apre bocca».
Ai suoi figli, invece, cosa dice?
«Sono una mamma vecchio stile. Gli dico di fare quello che gli piace. Il più grande, ultimamente, ha espresso il desiderio di occuparsi dell’azienda. Spero proprio che non cambi idea. Ce lo ripetiamo spesso, ne discutiamo, specie tra noi. Alla fine, tanto sono reattiva e curiosa nella vita lavorativa, quando tradizionalista in quella privata. Vedo gli stessi amici da quando avevo 15 anni, ci riuniamo intorno a un tavolo, a casa nostra, tutte le sere. Una comune: da una parte i vecchi, dall’altra i ragazzi. È il mio luogo sicuro, la mia vita condivisa».
Cosa pensa della rivoluzione tecnologica e mediatica in corso?
«È un argomento complesso che mi appassiona molto. Da una parte, la paura è che lo strumento, la tecnologia creino il pensiero mentre dovrebbe essere il contrario. Dall’altra, noto uno snobismo pericoloso: di fronte ai cambiamenti dettati da Internet, molti intellettuali si sono chiusi confondendo la potenza del web con la cultura dei selfie. È troppo facile, è troppo cliché. Io per prima ammetto di non comprendere certe dinamiche, ma non mi rassegno e continuo a studiare. Perché questa rivoluzione significa soprattutto lavorare di più, conoscere di più. A riguardo, mi fa molto riflettere la decisione di tanti designer di abbandonare i grandi marchi del lusso per la velocità, per la voracità del mercato contemporaneo. Io ho fatto una scelta diversa: voglio confrontarmi con la contemporaneità e voglio interagire con il mondo più grande, le piccole élite non mi interessano. Ringrazio la moda perché mi costringe a restare ancorata alla realtà e perché grazie a essa imparo come gira il mondo, capisco usi e costumi. Quello che vendi ti insegna a capire davvero. È una legge dura, qualcosa che ti tiene un pugnale sul cuore. Ma sei costretta a pensare. Non si può più fare lo stilista vecchio stile. Col tempo, poi, ho capito che introducendo un po’ di intelligenza nel tuo lavoro puoi trasmettere pensiero. E io voglio sfruttare la fama di questo brand per veicolare pensiero. Non ho la presunzione di fare del bene. Ho l’ossessione di fare qualcosa di utile, qualcosa che allarghi il punto di vista».
Come vede il suo futuro?
«Mi piace l’idea di continuare a lavorare. Sono troppo curiosa. Sono troppo appassionata per smettere. Voglio fare come fa Karl Lagerfeld. Voglio essere brava ancora per un bel po’».