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 2015  dicembre 14 Lunedì calendario

L’amore al tempo della democrazia (e di Alcibiade)

Eh l’amore, cioè, la vecchia storia dell’anima gemella. La suddetta ci viene narrata da Aristofane nel Simposio: un tempo – ci dice – eravamo simili a sfere, esseri fisici perfetti e autosufficienti. Purtroppo la nostra arroganza si è fatta subito sentire, così gli dei ci hanno tagliati a metà e separati in due parti. Non solo, per contrappasso, la nostra testa è stata girata, così che guardavamo solo il nostro lato anteriore, ovvero, guardavamo la nostra parte mancante. Per porre rimedio a questo spiacevole inconveniente, ognuno di noi deve cercare la sua parte mancante, e finalmente, trovata, fondersi con essa, ma se questo è l’amore che creature siamo noi? Costrette a brancolare nel mondo? Tentando di afferrare la nostra parte mancante? C’è di più: quando ci innamoriamo pensiamo di aver trovato l’anima gemella, l’incastro perfetto, dunque l’altra parte non è sostituibile. Infatti è proprio la nostra anima gemella, la misura che era stata tracciata per noi, la parte mancante della sfera. Però che paradosso: a parte che Eros unisce sì, ma arriva per caso, ma poi le creature mancanti si riuniscono (forse) ma non è in loro potere assicurarsi una felice riunione. Come può essere che una cosa così importante sia, appunto, affidata al caso? E soprattutto: se siamo preda di continui bisogni, se i desideri si focalizzano solo sulla parte mancante, come possiamo dunque occuparci delle cose che girano attorno a noi e che hanno bisogno del nostro contributo? Non possiamo farlo prima perché troppo concentrati sulla parte mancante, né dopo in quanto i due amanti dopo la riunione sono completi, hanno riacquistato la loro forma sferica, e dunque l’Eros che li ha uniti ora diventa Eros di secondo grado: nessun desiderio, niente di niente, completezza, mutismo, assenza di perturbazioni. Forse l’ingenuità è credere che l’altro sia a nostra personale misura e dunque che l’incastro sia perfetto. Ingenuità? Forse. Ma è possibile che in amore i beni siano misurabili e intercambiabili? Questo contrasta con ciò che si dicono gli amanti: solo tu sei così, solo tu hai quel bene specifico, non confrontabile con altri beni, unico e raro. Poi la parola passa a Socrate. Ha il suo classico modo di condurre l’argomentazione, dice di non sapere nulla sull’amore, anzi tutto quello che sa l’ha imparato da Diotima, una sacerdotessa. Diotima interroga Socrate e alla fine arrivano a definire il bello. La parola greca è “Kalòn”. Che tuttavia include qualsiasi cosa abbia una qualche rilevanza nell’esperienza dell’amore, passionale certo, ma anche l’amore per la scienza, per la democrazia. Dunque Socrate – attraverso Diotima – arriva a sostenere che in realtà gli occhi di un amante non siano beni incomparabili, ma al contrario quegli occhi sono una manifestazione della bellezza del tutto comparabile, quindi simile, a tutte le altre bellezze. Gli amanti, secondo Diotima, dovrebbero cominciare un percorso di educazione. Per far questo, il concetto di unico e incommensurabile, insomma le dichiarazioni tipiche delle anime gemelle, ecco, quelle sono dei limiti. Aumentano sì la tensione, perché focalizzano i desideri su una presunta unicità, sul particolare, ma se poi perdi quel dettaglio – quello che fa di un’amante quella e solo quell’amante – allora sei alla mercé della fortuna. Ma se i beni sono comparabili, attraverso una scienza delle misurazioni, una techne, allora possiamo arrivare a dire che il corpo di questa meravigliosa amante ha esattamente (si può comparare con) le qualità della sua mente, e la sua mente è simile alla democrazia ateniese. Se non c’è desiderio di fusione, se i due amanti non sono due (comiche) sogliole l’una alla ricerca dell’altra, allora contengono moltitudini. Dunque un amante potrebbe proprio in questo momento contemplare il culo della sua anima gemella (e i capelli gli occhi, le mani) e una formula matematica: entrambe sono belle, e se sono diverse, lo sono solo perché sono dislocate in spazio e tempo diverso, ma possono essere afferrate entrambe (la singolarità del culo e la dimostrazione generale della formula matematica). Certo, che esperienza estetica ed estatica sarebbe se davvero i due amanti riuscissero a vedere non singole parti del loro corpo, ma tutte le parti del mondo e tutte comparabili perché uniformi. Questo tipo d’amore (contemplativo?) libererebbe i due amanti dal rischio della perdita, dell’abbandono, della frustrazione, del tradimento. E in più, liberi da tali passioni servili, potrebbero dedicarsi alla democrazia, alla buona deliberazione, perché vedrebbero la bellezza e le meraviglie del creato e il mondo adatto per misurarle e ben amministrarle. Certo, che sforzo mette in atto Platone. Nostro compito è ascendere, come Diotima dice, verso dimensioni più alte, là dove la comparazione tra bellezze è possibile, oltre che necessaria. Platone si dà tanto da fare e nel Simposio scrive alcune tra le pagine più belle di tutta la letteratura, quando Diotima spiega (ma è un’arringa) a Socrate l’apprendimento che un giovanotto ha da fare nei confronti della bellezza.
Un’ascesa, appunto: poi saprà che la bellezza che risplende nelle anime è più pregevole di quella che traspare nei corpi e il giovanotto si innamorerà di quella bellezza, così che poi sarà portato a considerare la bellezza che è nelle istituzioni e nelle leggi, e vedrà che gira e rigira è sempre la stessa, e si capaciterà di che cosa è la bellezza corporale: e riguardando in questa copiosa bellezza, non più amerà alla maniera di uno schiavo la bellezza di un giovanotto o di un’istituzione, ma al contrario, annegando la vista nello smisurato mare di questa bellezza nuova, e in quello contemplando, partorirà molti bei discorsi, e pensamenti abbondanti in sapienza, fino a che, avvalorato da quella vista ed esaltato, non scorga più altro che una scienza sola: della stessa bellezza.
Però poi, dopo questo volo Platone complica le cose. Il fatto è che non gli piacciono le soluzioni facili, infatti arriva Alcibiade a chiudere il Simposio. Che tra l’altro arriva ubriaco, un corpo bellissimo ma non propriamente in sé, e mette su il discorso contrario a quello di Diotima, ci dice, cioè, che lui ama Socrate per particolari e uniche qualità, e l’amore non può fuggire da questa speciale esperienza del singolare: Alcibiade ama in Socrate qualità non commensurabili, uniche, non gli interessa comparare Socrate ad altro. Platone sa di non essere sofos, sapiente, come solo la divinità può essere (tutto può essere ideale, niente lo è) e si accontenta di essere filosofo, un innamorato della conoscenza, amore, desiderio di saggezza, però tuttavia, qui, la filosofia diventa ironica e tragica. Ironica perché il vero filosofo sa di non sapere, e dunque non può essere (siccome non sa) né saggio né non saggio. Può solo constatare con tragica ironia la sua condizione di inadeguatezza, il limite che passa tra il volo di Diotima e la concretezza empirica di Alcibiade. Eppure, questo filosofo è straziato dal desiderio di raggiungere la sapienza e la saggezza. Dunque la filosofia, con Platone, si definisce grazie a quello di cui è privata. Si possiede e si perde. Allo stesso modo un amante potrebbe dire all’altro: tu non mi cercheresti se non mi avessi trovato. È così l’amore e forse pure la democrazia.