Tempi, 10 dicembre 2015
Il bottino di guerra di Erdogan
Non è solo questione del petrolio di contrabbando proveniente dai pozzi petroliferi occupati dall’Isis, che secondo i russi farebbe la fortuna di un figlio e di un genero di Erdogan. La Turchia e i turchi hanno spogliato e ancora stanno spogliando materialmente la Siria in molti modi. Il petrolio è solo uno dei capitoli della storia. Fa un po’ sorridere che il comunicato finale della riunione dei capi di Stato dell’Unione Europea (Ue) col primo ministro turco Ahmet Davutoglu il 29 novembre scorso a Bruxelles citi esplicitamente la cifra che Ankara avrebbe speso dal 2011 a oggi per far fronte all’emergenza profughi siriani sul suo territorio. «Avendo la Turchia accolto più di 2,2 milioni di siriani e avendo speso 8 miliardi di dollari», si legge nel comunicato del Consiglio europeo, «la Ue ha sottolineato che era importante condividere il peso nel quadro della cooperazione Turchia-Ue». Gli 8 miliardi vengono menzionati al fine di giustificare l’impegno europeo a «fornire una prima tranche di risorse supplementari di 3 miliardi di euro», da tutti interpretato come un segnale di cedimento a un ricatto e di debolezza politica.
Degli 1,5 milioni di migranti irregolari che hanno raggiunto l’Europa quest’anno, la metà è arrivata dalla Turchia passando per la Grecia. Siriani per la maggior parte, ma non solo. Tutti hanno attraversato un tratto di mare pattugliato da decine di imbarcazioni militari turche impegnate a far rispettare le proprie acque territoriali, ma che per mesi non hanno visto niente sia quando i viaggi procedevano come previsto, sia quando le imbarcazioni naufragavano e centinaia di profughi morivano annegati.
Occhiuti quando si tratta di abbattere jet russi e giustificati poi dalla Nato, i turchi diventano miopi in mare. Quando dalla Grecia i superstiti sono sciamati a centinaia di migliaia in tutta Europa, l’Unione ha dato il consueto spettacolo di disunione. Non riuscendo a decidere se doveva accoglierli o respingerli, sta cercando di attuare una terza soluzione: pagare chi glieli ha mandati perché smetta di mandarli. Da qui l’accordo con la Turchia, che si impegna a trattenerli sul suo territorio in cambio degli aiuti finanziari europei e del rilancio del processo di adesione del paese all’Unione. Bloccato praticamente da dieci anni a questa parte a causa dei ripensamenti di Francia e Germania e dell’evidente impossibilità per i turchi di fare progressi su certi capitoli del negoziato, il processo di adesione è stato riavviato da una dichiarazione firmata dai leader europei e dal primo ministro Davutoglu appena due giorni dopo l’arresto del direttore e del caporedattore di Cuhmuriyet, il giornale che aveva documentato collusioni fra i servizi segreti turchi e l’Isis. Bruxelles è talmente con le spalle al muro sulla questione dei profughi, che non ha avuto esitazioni a esporsi a una figuraccia macroscopica.
Un export in forte crescita
Dunque la Turchia piange miseria per aver dovuto sborsare tanti soldi per soccorrere i poveri profughi siriani, e l’Europa per solidarietà e senso di responsabilità apre i cordoni della borsa. In realtà, a parte gli aspetti politici della questione e il ruolo che la Turchia svolge nella guerra civile del paese confinante, il bilancio delle entrate e delle uscite finanziarie turche causate dalla crisi siriana non è quello che Ankara vuol far credere. E nella colonna delle entrate non vanno conteggiati solo i profitti del petrolio di contrabbando. Un recente studio del ricercatore David Butter per conto della britannica Chatham House – The Royal Institute of International Affairs, basato sui dati dell’ente statistico turco, mostra un curioso fenomeno: l’interscambio commerciale fra Siria e Turchia crolla con scoppio della guerra civile nella prima, e nel 2012 è ridotto a un quarto di quello che era nel 2010: successivamente però rimbalza, e mentre in Siria le devastazioni e i lutti raggiungono picchi senza precedenti, nel 2014 l’export turco verso il paese degli Assad torna ai valori del 2010: 1,8 miliardi di dollari. Invece l’export siriano verso la Turchia non ha conosciuto rimbalzi: valeva 452 milioni di dollari nel 2010, è sceso a 115 milioni nel 2014. Come si spiega il mistero? Secondo Butter il rimbalzo va interpretato «in parte come risultato della fornitura di aiuti attraverso il confine settentrionale della Siria, e in parte come risultato di nuove relazioni commerciali, incluse vendite da parte di compagnie siriane che si sono impiantate nella Turchia orientale. Un aspetto importante delle relazioni commerciali con la Turchia è stato il trasferimento di imprese siriane dall’altra parte della frontiera. Secondo fonti turche ufficiali, il 25 per cento circa delle 4.249 compagnie comprendenti soci stranieri che sono state create in Turchia nei primi undici mesi del 2014 comprendevano investitori siriani. Le imprese turche con soci siriani sono state le più numerose fra le imprese turche partecipate da stranieri anche nel 2013, ma allora rappresentavano solo il 12,6 per cento del totale. Il presidente della Camera di commercio della città portuale di Mersin, avrebbe dichiarato che il grande aumento di esportazioni dalla città verso la Siria è dovuto alla delocalizzazione di imprese siriane nell’area circostante. I dati ufficiali sugli scambi commerciali non includono i considerevoli volumi di merci di contrabbando attraverso la frontiera turca, compreso petrolio e prodotti già raffinati del valore di svariate centinaia di milioni di dollari, che hanno raggiunto il mercato turco partendo da aree sotto il controllo dell’Isis».
Le razzie criminose
Insomma, la guerra ha trasformato molte imprese siriane in imprese turche, che in Turchia hanno trasferito macchinari e capitali finanziari. Ora esportano soprattutto nei territori siriani sotto controllo ribelle e pagano le tasse all’erario turco. Quanto all’accenno all’Isis e al suo ruolo nel contrabbando di petrolio e carburanti, quello citato non è l’unico passo che chiama in causa lo Stato islamico. A un certo punto si fa notare che nel 2014 si registrò «un picco di 311 milioni di dollari di esportazioni dalla Turchia alla Siria nel mese di luglio, mentre per il resto dell’anno la media mensile sarebbe equivalsa a 135 milioni di dollari. Non è chiaro che cosa abbia causato questo picco nelle esportazioni, ma sta di fatto che esso coincise col culmine delle avanzate dell’Isis in Iraq e in Siria, e almeno una parte delle vendite addizionali potrebbe essere rappresentata da approvvigionamenti addizionali di origine turca da parte dell’Isis, per esempio tubi d’acciaio e altro materiale per progetti di raffinazione di idrocarburi».
Insieme al trasferimento delle attività industriali o commerciali dalla Siria alla Turchia, l’altro grande beneficio che l’economia turca ha avuto dalla guerra siriana è il trasferimento di capitali. Scrive Samer Abboud, docente all’Arcadia University della Pennsylvania e autore di un prezioso libro sul conflitto siriano: «Città come Reyhanli, Gaziantep e Antiochia, e le province meridionali in generale, hanno conosciuto un significativo boom economico a partire dal 2011. Le banche turche sono state inondate di denaro siriano e, secondo dati relativi all’ultima parte del 2012, le banche della provincia dell’Hatay hanno registrato un aumento dei depositi in valuta estera del 101 per cento. Aumenti simili sono stati registrati in tutte le banche della Turchia meridionale, lasciando concludere che molti dei siriani che hanno abbandonato il paese hanno portato con sé i propri risparmi e sono in grado di vivere fuori dai campi profughi, inoltre molti industriali siriani che avevano venduto le loro proprietà nella Siria settentrionale avevano cominciato a riposizionarsi in Turchia, trasferendo i loro capitali finanziari per avviare nuove operazioni o entrare in partnership con imprenditori locali».
Fin qui abbiamo parlato di trasferimenti di attività industriali da parte dei proprietari. Ma c’è anche il capitolo delle razzie e dello smantellamento criminoso di impianti e attrezzature industriali. Nel marzo del 2013 la Federazione delle Camere dell’Industria siriane fece causa allo Stato turco presso un tribunale tedesco accusando Ankara di complicità nel saccheggio e nello smantellamento di fabbriche e imprese del distretto di Sheikh Najjar, ovvero la zona industriale di Aleppo, posta una decina di chilometri a nord-est della città. Nel luglio 2014 l’area fu riconquistata dall’esercito governativo, e nell’agosto di quest’anno un giornalista turco del quotidiano Radikal ha fatto un reportage sul posto. Da esso risulta che le fabbriche smantellate e trasferite in Turchia sarebbero state circa 300, su un totale di 963 stabilimenti tessili, alimentari, chimici, farmaceutici. Il vicepresidente della Camera dell’Industria e del Commercio di Aleppo, Bassil Joseph Nasri, informa che le imprese danneggiate hanno deciso di rivolgersi alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja: «Abbiamo costituito un team speciale per seguire la denuncia. I proprietari dei beni rubati stanno cercando di rintracciarli. In molti casi i numeri di serie sono stati abrasi, ma si tratta di macchinari speciali, e non è difficile individuarli. Ci sono imprenditori che hanno localizzato i loro macchinari rubati, uno di loro è andato in Turchia e lo ha riportato indietro. Sappiamo che le attrezzature sono state vendute nelle province di Kilis, di Gazantiep e dell’Hatay. I saccheggiatori si erano fatti accompagnare da ingeneri dalla Turchia per individuare le parti più pregiate. In alcuni casi hanno asportato l’intero macchinario, in altri pezzi particolari. Stiamo individuando i ladri, e altre denunce in sede giudiziaria seguiranno».
Il traffico umano
Un altro flusso poco indagato di denaro da tasche siriane a tasche turche è quello che riguarda il traffico dei profughi verso l’Europa. Prima che la firma dell’accordo con l’Unione Europea imponesse un alt, si spera non temporaneo, al fenomeno, hanno tratto beneficio da questa attività illegale innumerevoli cittadini turchi. Racconta un reportage del New York Times da Smirne (terza città per numero di abitanti) del settembre scorso che in Turchia si è sviluppata una «economia sommersa multimilionaria» che «trae profitto dalla massiccia onda umana che corre verso l’Europa. Gran parte di questa nuova economia è visibile qui sulle strade, dove i trafficanti adescano i rifugiati, i negozi di abbigliamento espongono giubbotti e ciambelle di salvataggio, corriere e taxi trasportano passeggeri verso remote spiagge di partenza lungo la costa. Il denaro scorre attraverso Smirne, divenuta un triste snodo per gli emigranti e una città dell’oro per i residenti. Nascosta alla vista è l’estesa infrastruttura del contrabbando di esseri umani, con improvvisati “uffici assicurativi” dove viene depositato il denaro che serve al pagamento, fabbriche segrete che sfornano giubbotti di salvataggio inefficienti e fornitori clandestini di gommoni a poco prezzo che talvolta si bucano o si ribaltano durante il viaggio verso la Grecia, causando l’annegamento delle persone». Prima del recente giro di vite, le autorità apparivano coinvolte: «Qui a Smirne lo Stato sembra assistere inerte al quotidiano spettacolo di emigranti che attraversano la città e si recano sulla costa per salire sui gommoni per la Grecia. Osservatori internazionali dicono che mentre i migranti pompano denaro nell’economia ufficiale, chi realizza i guadagni più forti sono gang criminali molto organizzate che probabilmente corrompono le autorità perché guardino dall’altra parte. Gli stessi siriani e la manovalanza dei trafficanti asseriscono che le autorità vengono talvolta pagate per lasciar passare i migranti». Come titolava quel famoso film di Alberto Sordi: finché c’è guerra c’è speranza. Di fare soldi.