la Repubblica, 13 dicembre 2015
Autobiografia grafica di Italo Lupi
La parola “creativo” ci ha perseguitati per anni. Non che fosse sbagliata. Ma inflazionata sì. E morbida come una cipria soffiata per abbellire le professioni dei pubblicitari, grafici, architetti, fotografi, comunicatori. Gente in grado di impaginare mentalmente qualunque cosa: «È stata la grande trovata degli anni Ottanta e Novanta quando perfino un cretino di talento poteva essere – o far finta di essere – un creativo, cioè qualcuno che dal niente immaginava qualcosa di insolito», dice Italo Lupi. Non saprei come collocare quest’uomo che ha da poco pubblicato Autobiografia grafica (Corraini edizioni). Architetto, grafico, direttore della rivista Abitare, Lupi è una figura che nel tempo ha unito diverse inclinazioni, tra editoria e spazio urbano. Svolge il proprio lavoro lontano dal clamore. Come se il creativo, appunto, lasciasse il posto a una intelligenza meno esibita, più riposta nel sottotraccia delle emozioni. L’uomo mi accoglie con composta curiosità. Siede nel bel salotto milanese dando le spalle a un manifesto che si compone di alcune vistose lettere tipografiche. Sembrano un richiamo a un ordine estetico antico. Ma dove sono i colpi di vento della storia, i gesti che scuotono il normale tran tran? «L’immagine che posso offrire di me è un po’ diversa. Richiama una certa disciplina nel lavoro. Quando curai il look delle Olimpiadi invernali di Torino scelsi una frase di Italo Calvino: “Torino invita alla logica, e attraverso la logica apre la via alla follia”».
Come va interpretata?
«Non rinunciare al ragionamento, senza tuttavia scappare davanti all’insolito, al favolistico, all’imprevedibile. A patto, naturalmente, che tutto questo non sia un esercizio fine a se stesso. Ricordo che scegliemmo come colore guida il rosso cinabro e alla fine delle Olimpiadi il giallo acido. I colori definiscono uno spazio e, in qualche modo, lo inventano».
E lei come si definirebbe?
«Sono un uomo di carattere, ma “tipografico”. Fin da bambino nelle letture – che poi erano quelle più avventurose – sono stato attratto dalla composizione della pagina: le lettere, i margini, gli spazi, i capoversi. Era come se la mia mente sgombra da pensieri e pregiudizi, viaggiasse felice in quella foresta di segni. Un richiamo a un ordine segreto in un tempo tutt’altro che ordinato. Anni di guerra, abitati dalla paura e dal caos. La fame era terribile. E a me pareva che quelle righe tipografiche mi trasportassero in un altro mondo».
Che ricordo ha della guerra?
«Sfollammo, con la mamma, nella casa del nonno: una villa ottocentesca nelle Langhe. Eravamo fuori da Vezza d’Alba, allora un paese poverissimo. Ma anche un luogo della Resistenza. Nella nostra casa trovarono rifugio sei ebrei. Il nonno li nascose dietro una grande libreria. Ricordo l’ansia sul suo volto quando scattavano i rastrellamenti. In fondo si vedeva la valle del Tanaro, attraversata dalle bande dei fascisti. La taglia per ogni partigiano o ebreo denunciato era di cinquemila lire. Lo appresi da un manifesto che il comando tedesco aveva affisso in paese».
Come fu la convivenza con i rifugiati?
«Erano quasi tutti lontani parenti del nonno. Il giorno restavano chiusi nel nascondiglio. La notte uscivano, coperti dai loro mantelli, per brevi passeggiate fuori dal paese. Con il più giovane feci in seguito amicizia. Si unì ai partigiani di Alba, in una delle brigate Matteotti. Era laureato in filosofia. Ma poi divenne progettista degli aerei Tornado. È strana, a volte, la vita».
E per lei lo fu?
«Non lo so. Le accennavo a cosa mi piaceva. Potrei dirle: c’era niente di più strano? Mio padre mi seguiva perplesso. Forse pensava ad altri mestieri».
Cosa faceva?
«Era direttore di una filiale di banca a Pavia. Nei due anni che vivemmo da sfollati lui restò a lavorare in città. Ci raggiungeva una volta al mese. Partiva in bicicletta da Pavia e copriva un centinaio di chilometri. In inverno arrivava stremato. La barba coperta di stalattiti e sulle spalle uno zaino pieno di riso. Finita la guerra tornammo tutti a Pavia».
Che città trovò?
«Festosa, ma diversa da Alba. I giorni della liberazione ad Alba furono straordinari. Il paese si radunò nel grande capannone dove si raccoglievano le uve e le pesche. Partigiani con il fazzoletto azzurro al collo e le giovani del posto ballavano al suono delle fisarmoniche. A Pavia, invece, vidi con meraviglia l’ingresso degli americani. Arrivavano da Cremona. Festosi e avvolti da un’eleganza trasandata. Ricordo le loro jeep bellissime. Le avrei ritrovate, con qualche emozione, nei disegni di Milton Caniff».
È stato un grande fumettista.
«Straordinario. A lui si sono ispirati in molti tra cui Crepax. Sono stato molto amico di Guido. Nel mio lavoro di grafica i fumetti mi hanno influenzato. Come pure una certa pittura inglese».
Quale?
«Quella degli anni Trenta. Non la grande pittura che in Italia espressero Sironi, De Chirico, Morandi o De Pisis. Ma quella capace di raccontare la vita quotidiana come ha fatto Stanley Spencer».
In Italia la grafica volle dire Milano.
«Per i suoi valori moderni e industriali Milano fu uno dei grandi centri europei. Poteva tranquillamente competere con la scuola svizzera, olandese, inglese. La ricchezza di talenti e la forza con cui si imponevano fu sorprendente. Quello che accadeva a Milano sembrava dovesse succedere nel resto del mondo».
Pensa a qualche nome in particolare?
«Parte della grafica americana fu influenzata dagli italiani. Il primo nome è quello di Massimo Vignelli. Fu lui a disegnare la mappa della metropolitana di New York. Suoi i sacchetti di carta marrone di Bloomingdale e le copertine dei libri di viaggio della Fodor. Concepiva la professione come una forma di purezza. Reagiva con chi, non avendo nessuna dignità della professione, inquinava gli spazi della grafica.