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 2015  dicembre 13 Domenica calendario

A Bucarest, fuori dalla discoteca dove un incendio ha ucciso 60 ragazzi

Ieri sera, con il trucco & parrucco, le luminarie in testa, i bijoux al neon qua e là, Bucarest sembrava una città vivace, a suo modo inquieta, con qualche angolo di Parigi (architetture alla Haussmann, caviar restaurant e champagne bar protetti da spesse tende) e i soliti marchi del lusso globale a far festa. Stamattina è un’altra storia. Nella luce livida di dicembre giacciono sul marciapiede le ciglia finte e i lustrini, i negozi e i locali si rivelano cavità vuote, le cui insegne funzionavano per inerzia, e la folla, sognando un altro futuro, si trascina per le strade del passato dove anche i cartelloni pubblicitari hanno un’età e lasciano sopravvivere testimonial ammainati da anni, perché travolti da scandali. Le uniche file sono negli uffici di pratiche per l’espatrio. Le supero camminando per lo stesso viale che cambia nome a ogni chilometro (Magheru, Balcescu, Bastianu, Cantemir) componendo nella mia testa la formazione di una qualche Dinamo o Steaua, anche se le targhe annunciano filosofi, letterati e soprattutto rivoluzionari. Che cosa è rimasto di tante rivoluzioni? Monumenti, croci, Zara Home. L’astronave del Parlamento è sempre là, a chiudere l’orizzonte: di sera è il Rex che passa e si ferma a salutare chi lo sognava, di giorno è una carcassa di grigia pietra, l’archivio di tutti i destini non pervenuti.
Lo guardo da lontano e proseguo: ho una meta precisa, la chiamo in codice Disco Inferno. Non sarà difficile trovarla, basterà svoltare su viale Marasesti, dal nome della battaglia più cruenta, l’ultima, sul fronte rumeno nella prima guerra mondiale: 27mila morti di qua, 47 mila tra i tedeschi. Annoto le cifre, perché bisogna pur sapere di che cosa si parla quando si parla di guerra mondiale e lo dicono i numeri, più delle parole.
Il punto d’arrivo lo segnalano le auto della polizia ferme all’ingresso di una piazzetta. Oltre, un assembramento: persone vestite a lutto, sacerdoti celebranti fuori tempo massimo, fiori, candele, foto di ragazzi, striscioni, proteste silenziose. Tutto davanti a un edificio incongruo, un parallelepipedo bianco mal costruito fin dall’inizio. Era una fabbrica di calzature nazionalizzata nella Bucarest di Ceausescu, di certo nessuna per i piedi di sua moglie Elena: scarpe operaie, tacco basso e largo, punta stondata, suola di gomma, fibbia. C’è ancora l’insegna: “Pionierul”, obliqua, come fosse scivolata giù, ma non fosse mai caduta. Poi è diventato un palazzo delle feste, per così dire, un ritrovo multisale, sopravvivono i manifesti: serata salsa, rock, metal. L’ultima è stata il 30 ottobre scorso. Nella discoteca “Colectiv” si esibiva un gruppo chiamato Goodbye to Gravity. Succede spesso che i simboli della storia vengano riconvertiti a dj set e cotillons: anche nei cantieri di Danzica si balla e pochi ricordano i tempi di Solidarnosc. C’erano centinaia di ragazzi quella notte al Colectiv, un nome scelto per sbeffeggiare il passato, senza tenere in conto che di tutti i tempi è il più permaloso. Il complesso musicale aveva la pessima abitudine di entrare in scena con uno spettacolo pirotecnico. Ha acceso il palco, ha acceso un incendio. Fiamme e gas: 26 morti sul posto, 34 negli ospedali dove sono stati trasportati (per lo più all’estero, dato che la Romania non è preparata per le grandi ustioni). Totale: 60 morti e 151 feriti gravi. Il locale non aveva sistemi né uscite di sicurezza. La licenza era stata ottenuta corrompendo i funzionari competenti. Di 60 ragazzi restano soltanto le fotografie appese al muro. La rabbia che ne è seguita ha portato a giorni di manifestazioni, all’ennesimo tentativo di rivoluzione con il marchio: Colectiv, questa volta. Il sindaco del settore 4 di Bucarest si è dovuto dimettere. Il premier Ponta, già accusato di corruzione e di aver copiato la tesi di dottorato, e tuttavia commendatore dell’Ordine della Stella d’Italia, ha dovuto dimettersi, lasciando a un governo provvisorio.
Ha un che di provvisorio anche questa scatola di cemento e vetri: non è più Pionierul, non è più Colectiv. È storia in transito, che travolge il passato ma non sa a quale futuro votarsi e quindi finisce per non trovarne alcuno. Questi ragazzi, come quelli che appena due settimane dopo moriranno al Bataclan di Parigi, meritavano un avvenire, anche se non sapevano che fare del presente. La loro morte ha risuonato come un allarme su un treno della notte, carico di dormienti. Ci volevano davvero 89 vittime là per scoprire che lo stato islamico è una forma di fascismo con l’alibi della religione? E 60 qua per sbugiardare una cosca con la maschera della socialdemocrazia? A est come a ovest l’Europa continua a sacrificare figli in guerre che prima non dichiara, poi non combatte. La schiaccia il ricordo di quelle storiche, di quelle vere. Anche le rivoluzioni sono in scala. È solo cambiata la gestione. Come è successo alla Pionierul, come succederà al Colectiv.