la Repubblica, 13 dicembre 2015
Confesso che ho molto fumato. Incontro con Eros Pagni
«Sono un melomane, suono cinque strumenti, uno dei quali piuttosto inclassificabile. Oltre a estrarre buona musica dal pianoforte, dalla fisarmonica, dalla chitarra e dall’armonica a bocca, me la cavo molto bene coi “cucchiai”. Intendo dire due cucchiai di metallo usati come nacchere, mettendo un dito in mezzo alle due parti convesse, battendo sulla gamba e sulla mano. È un’arte che ho appreso ascoltando il grande Paco de Lucía o il grandissimo Andrés Segovia. Ma alla base di tutto ci fu l’apprendistato in quella corte dei miracoli che era la trattoria di mio padre a La Spezia. Dove si davano appuntamento musicisti, pittori, scrittori, puttane, portuali e picchettini, quelli che toglievano le incrostazioni di nafta dai tubi delle petroliere. Per il resto, mi tengo la mia voce bassa da baritono». A parlarci così non è né uno strumentista eclettico né uno showman con la fissa della contaminazione dei generi ma Eros Pagni, roccia del teatro italiano, artista tutto d’un pezzo, uno dei più seri e stimati attori dei nostri palcoscenici. Settantasei anni (di cui ben cinquantasei di ininterrotta e formidabile collaborazione col Teatro Stabile di Genova) e una carriera capace di tradursi in personaggi epocali (fra tutti, il perdente e impermeabile Willy Loman di Morte di un commesso viaggiatore di Miller), interpretazioni profonde di opere di Shakespeare, Goldoni, Kleist o Brecht, duttilità magistrali sia alle prese con drammi che con commedie (fino a vedersi attribuire di recente il Premio “Le Maschere del Teatro” per il suo exploit di protagonista non napoletano de Il sindaco del rione Sanità di Eduardo, regia di Marco Sciaccaluga).
«È intorno ai sei-sette anni che credo di aver provato la prima voglia d’esibirmi, su una cassetta di legno, con un guanciale in mano, imitando suoni di fisarmonica con la voce, tanto che il direttore della Corale di La Spezia confidò a mio padre che io avevo un orecchio straordinario, che lui non credeva potesse esistere alla mia età. E a forza di suonare a orecchio accadde che, ascoltandomi, un bel giorno una maestra di musica se ne uscì dicendo alla mia famiglia “Lui suona Al chiaro di luna di Beethoven e non conosce una sola nota della partitura”. Ma io continuavo a essere un cane sciolto, un lavativo e, come perditempo, come ragazzo indolente che soffriva d’asma e che incuteva rotture di scatole, quasi danneggiavo il locale di mio padre, che si chiamava Otello, e che era invece un fior d’esempio per dedizione e moralità». L’adolescenza di Eros Pagni procedeva sul filo di innamoramenti sonori e di episodica arte strumentale. «In uno spettacolo di arte varia m’imbattei in un fisarmonicista che faceva miracoli con una fisarmonica a centoventi bassi, e convinsi mio padre a comprarmene una a ottanta bassi, e così a dieci-undici anni imparai al volo la Ciarda di Vittorio Monti, finché passai alla chitarra con la quale più tardi suonai anche all’estero, a Edimburgo, dove sentii Larry Adler e la sua armonica a bocca con relativa mia infatuazione per una piccola Honner. Infine, una performance di flamenco mi fece venire il desiderio incontrollato di riprodurre il rumore dei passi, e m’appropriai della tecnica popolare dei cucchiai di cui sopra usata da uno straccivendolo. Oggi suono nelle pause davanti ai colleghi del teatro, o riesco ad aggiudicarmi anche pochi accordi ufficiali in palcoscenico, in sintonia col clima di questo o quello spettacolo».
Se questa è la “corda pazza” di Eros Pagni, c’è però, ormai dominante, la “corda civile” della prosa. «Una prima educazione ai valori (anche quelli ereditati da mio padre) la devo al traumatizzante momento in cui mi sono sposato con un angelo di donna detta Manila. In realtà il nostro sodalizio ha inizio quando io avevo nove anni e lei sei. Il matrimonio è arrivato nel 1963. Manila mi ha salvato dalla catastrofe dell’avere soltanto impeti, tendenze, smanie, ardori. E poi da giovane ho seguito il prezioso consiglio di un collega concittadino, Antonio Salines, che non perdeva tempo nelle sale da biliardo ma si rintanava in una filodrammatica di salesiani di La Spezia, dove entrai pure io per sostituire qualcuno in un lavoro: fu lui a trascinarmi all’Accademia, a Roma, dove, grazie a Sergio Tofano e a Orazio Costa, uscii attore, tant’è che Ivo Chiesa mi volle subito, già nel 1959, allo Stabile di Genova». Con quella voce forte, scura, possente. «Per conservarla ho fumato molto. Ora non posso fare a meno della pipa».
Come un rustico e volitivo contadino, come un ex suonatore versatile e instabile, Pagni non ha mai definitivamente venduto l’anima all’intellettualismo. «Che vuole che le dica? Sono un attore-uomo al servizio dei personaggi, ho bisogno di illudermi, e solo con l’illusione restituisco una certa realtà. Sono un tizio che s’accontenta, che continua a chiedere scusa. Mi piace avere un bel rapporto col cibo, a volte cucino io stesso, so distinguere il vino buono da quello cattivo. Essendo uomo di terra, nel mio rifugio di famiglia, nei dintorni di Lucca (a Lucca ci andavo in vacanza da piccolo, e a Lucca era capitato che la madre di mia moglie m’avesse anche allattato) amo fare l’orto, e tutti noi mangiamo pomodori, zucchini, melanzane, peperoni e fagioli che sono da me coltivati. Ho il piacere antico della famiglia, di cui fanno parte due figli, Riccardo, che ha cinquantuno anni ed è collaboratore scientifico, e Valeria, quarantasette, dottoressa. Più quattro nipoti. Non sono portato a nascondermi, sono sempre alla luce del sole. A darmi disagio, a bloccarmi sono le persone disoneste, e badi che io considero la disonestà una deviazione dello spirito umano: non ho il coraggio di guardarli in faccia, i disonesti, perché trasmettono molestia. Ne sento il puzzo a chilometri di distanza. La razza è fatta di quelli che ti lodano e poi scompaiono, di quelli che raggirano anziché limitarsi semplicemente a “parlare”».
La sua memoria, generosa grazie a una collezione vasta di rapporti e interpretazioni, ha sempre spazio per il ricordo dei direttori di teatro stabile Ivo Chiesa e Carlo Repetti, dei registi Squarzina, Ronconi, Castri, Stein, Sepe, e del sodalizio con Sciaccaluga (che lo ha appena diretto nel Minetti di Bernhard, mentre sarà Alessandro D’Alatri a firmargli la regia del China Doll di David Mamet che affronterà in aprile all’Eliseo). E cita d’istinto, del repertorio passato, alcuni personaggi come quello del giudice Azdak, ne Il cerchio di gesso del Caucaso di Brecht, o come il Tito Andronico shakespeariano e, non a caso, il Commesso viaggiatore di Miller. «Sono credente, e praticante, e prego ogni sera prima di addormentarmi, e ringrazio Dio per quello che mi ha dato, e chiedo di non essere di intralcio a nessuno». Viene da lontano, Pagni, da un mondo che lo ha visto accanto a Lina Volonghi, a Enrico Maria Salerno, a Alberto Lionello, a Raf Vallone, un mondo dove la sua storia di giovane ribelle e poi di militante integro della ribalta sembra, e lo è, un fenomeno di modestia e di professionismo inflessibile, senza retorica. Come suggerito dalla sua voce, scura e al tempo stesso netta. Come adombrato dalla sua sagoma, di uomo di temperamento d’altri tempi con un cuore grande. Come testimoniato dal suo affetto per tutti i responsabili e i compagni dello Stabile genovese, sua seconda famiglia per più di mezzo secolo. Se deve citare un encomio ricevuto, sfoglia mentalmente un albo delle critiche d’epoca: “…e sul fiero urlare di Eros Pagni si chiuse il velo pietoso del silenzio” fu scritto di lui in un Edipo a Colono, a tempo debito. E il suono delle sue parole resta tutt’oggi un patrimonio da tutelare.