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 2015  dicembre 13 Domenica calendario

«Non toccare. È un’opera d’arte». In giro per la Koons Factory

In un angolo dello studio dove Jeff Koons lavora, accanto al fiume Hudson che in questo punto passa per Chelsea, un cartello su una scala di alluminio, di quelle che si vendono dal ferramenta, avverte: “Non toccare. È un’opera d’arte”. Potrebbe essere lo scherzo di un impiegato spiritoso, come ce ne sono in tutte le aziende, anche se in questa, una factory in cui si lavora per trasformare in realtà i sogni più bizzarri dell’artista vivente più quotato sul mercato, il tono sembra piuttosto serio. E infatti l’oggetto fa effettivamente parte di una delle carismatiche sculture di Koons: Caterpillar Ladder (2003), dove un insetto gonfiabile si china burlone incastonato tra il terzo e il quarto gradino della suddetta scala. Per la nostra intervista Koons, a sessant’anni in splendida forma (grazie a un rigido regime di allenamento fisico: assicura che è capace di sollevare centocinquanta chili a peso morto), si siede al grande tavolo di formìca che è la sua postazione di lavoro. Un gigantesco computer sostituisce i classici utensili da artista: non c’è traccia di tavolozze, di grembiuli pieni di macchie di pittura o di blocchi di marmo. Il capo condivide la scena con mezza dozzina di assistenti che proseguono il loro lavoro in silenzio. Sembrano un po’ la sua guardia pretoriana, quando non la sua memoria. Se questa lo tradisce (per esempio sul numero di opere di un’esposizione, su questo o quel nome di gallerista), l’artista ricorre a Lauran, una ragazza arrivata dal Dakota del Sud direttamente al vertice dell’arte contemporanea, o a Gary, col suo aspetto da matematico anacoreta. Lo spazio in cui ci troviamo è un generoso cubo bianco pieno di arnesi immediatamente riconoscibili da chiunque abbia familiarità con la traiettoria artistica di Koons. Dagli Hulk verdi e dai delfini gonfiabili fino alle sfere blu riflettenti che lui colloca su sculture di stile classico come in Gazing Ball, la sua produzione più recente (l’idea gli venne da un regalo della sua anziana mamma, ancora viva). Nella stanza accanto si lavora al perfezionamento di alcuni disegni in tre dimensioni. In fondo al corridoio c’è il laboratorio di pittura, dove diciassette persone copiano capolavori per l’esposizione nella galleria Gagosian, a Chelsea (attualmente in corso, fino al 23 dicembre, ndr). Non è consentito, avvertono, né scattare foto né scrivere di quest’opera ancora in elaborazione: deve rimanere segreta. Oltre la cucina per i dipendenti c’è poi uno dei due atelier di scultura. Per raggiungere l’altro, un’immensa navata con un forte odore di prodotti chimici, dove regna, stavolta sì, la confusione che ci si immagina nello studio di un artista, bisogna scendere lungo la Ventinovesima strada, verso il fiume.
Koons calcola che in questo piccolo villaggio, che presto cambierà sede, lavorino «circa centosessanta persone». A queste «bisogna aggiungere le circa trenta» che lavorano per lui in uno stabilimento di sua proprietà in Pennsylvania dedicato alla realizzazione delle sculture in pietra. «E c’è poi una società, la Arnold, con un centinaio di dipendenti, in Germania, con cui mantengo uno stretto rapporto». Alla domanda su come si giudichi come capo, risponde: «Sono abbastanza esigente, ma allo stesso tempo do spazio alla gente perché cresca e partecipi al miglioramento del sistema e al miglior conseguimento di quello che desidero». Più tardi una delle sue dipendenti – che ha cominciato a lavorare nella sua impresa dieci anni fa, quando c’erano ancora “solo” quaranta dipendenti – ci spiegherà che la maggior parte di loro sta con Koons da molti anni: «Questo dovrebbe darti un’idea di com’è l’ambiente e di quali siano le condizioni lavorative in questo posto». Lui, il grande capo, racconta che pur lavorando con tutta questa gente è «come se lavorassi con le sole dita della mia mano. Sono responsabile di ogni dettaglio del procedimento. Tutto passa attraverso di me. Quando un dipinto è finito, è esattamente come io desideravo che fosse. Non c’è possibilità che vi si mescoli la soggettività di nessuno dei miei dipendenti. Nessuno cambia nemmeno di un pizzico un colore o il senso di una composizione. Vengo a lavorare tutti i giorni, ho bisogno di dirigere ogni cosa». Nonostante i frequenti confronti, sostiene che la sua factory non abbia molto a che vedere con quella di Andy Warhol («no, non l’ho mai visitata, ma da qualche parte devo aver letto qualcosa...»). Piuttosto, dice, assomiglia alle botteghe di artisti come Tiziano o Rubens – dei quali conserva grossi volumi nel suo ufficio. Il ritmo con cui vengono generate le sue opere, che oscilla tra i sei e i sette dipinti e tra le quindici e le venti sculture di media all’anno, è rallentato dall’ossessione per la perfezione levigata e la ricerca del materiale idoneo. Sembra del tutto ovvio che per mandare avanti una baracca del genere ci vogliano anche doti da uomo d’affari e provate attitudini commerciali, ma Koons nega risolutamente: «Mi definirei piuttosto una persona autosufficiente. Il mio non è commercio, porto il peso della responsabilità di cercare di essere il miglior artista possibile. Ho sempre pensato di lavorare per una società, perché poi sarebbe stata questa a consentirmi di raggiungere i miei obiettivi».
Koons è uno dei pochi grandi artisti che tratta, contemporaneamente, con le gallerie più importanti (e rivali) di New York: oltre che alla Gagosian espone infatti con David Zwirner. Inoltre, per motivi sentimentali, rimane legato alla galleria della scomparsa Ileana Sonnabend, sua mercante negli anni dei primi exploit. Quanto alle sue capacità come venditore, non si può non ricordare che, alla fine degli anni Ottanta, si guadagnava da vivere come assistente alle relazioni con il pubblico al MoMA («ma di notte e nel fine settimana facevo l’artista»), anche se, per il suo aspetto eccentrico e i suoi gilet multicolori, quando venivano i pesci grossi si eclissava per evitare di farli scappare. Ovviamente quegli stessi pesci grossi hanno poi pagato milioni per acquistare le sue opere.
Nella mitologia di Koons brilla anche il periodo in cui lavorò come broker a Wall Street. Lo fece per riprendersi dal suo primo fallimento professionale: l’esposizione, nel 1980, della sua prima serie, The New, effimero ammiccamento al minimalismo in cui propose costosi aspirapolvere industriali in vetrine di metacrilato illuminate con lampade fluorescenti, lo condannò alla rovina. L’artista tornò a leccarsi le ferite a casa dei genitori, un decoratore e una sarta, che si erano intanto trasferiti in Florida da York, Pennsylvania, dove Jeff è nato e ha trascorso un’infanzia felice. «Quello fu il periodo peggiore della mia carriera: semplicemente non c’erano collezionisti per quello che facevo». Così, tornato a New York, per finanziare le sue avventure nella pop art puntò sul mercato dei futures. Ma non fu quella l’ultima volta in cui dovette mangiare polvere. All’inizio degli anni Novanta, scultore ormai quotato, Koons si sposò con Ilona Staller, in arte Cicciolina, star del porno, cantante e parlamentare italiana di origini unghe- resi. Insieme furono protagonisti di uno dei progetti più controversi del tempo: Made in Heaven (1989-1991), una serie di dipinti e sculture di vetro, plastica, legno e marmo nelle quali la coppia faceva sesso con la crudezza, sofisticata e irreale, di un film a luci rosse di quell’epoca. Le critiche che gli arrivarono addosso furono le più dure in una carriera pur costellata di spietate stroncature. Oggi Koons spiega che il tema centrale della sua opera in realtà è «la filosofia, le sensazioni e la trascendenza». Anche in opere come Michael Jackson and Bubbles, il suo celebre ritratto in porcellana della popstar e dello scimpanzé? «Certamente. Ha la stessa struttura triangolare della Pietà di Michelangelo. Jackson vi appare come un soggetto dall’autorità quasi religiosa. Racconta come l’arte possa colmare tutti i nostri bisogni fisici e spirituali». Al di là delle vendite milionarie, delle collaborazioni con Lady Ga-Ga, con la Bmw o con il Mouton Rothschild Grand Cru (vendemmia 2010), è convinto che tutti i suoi problemi sarebbero risolti se si mettesse una buona volta da parte la tendenza a emettere dei verdetti. «Sento di appartenere a un lignaggio d’avanguardia che chiede la morte dei giudizi», spiega. «O meglio, dei pregiudizi negativi. E quando pretendi una cosa simile è logico che ti scontri con i critici. Una critica negativa racchiude le insicurezze di chi la scrive».
In fondo i vituperi di una manciata di accademici non furono la cosa peggiore nella sua storia con Cicciolina. Il matrimonio moltiplicò la sua fama, ma ebbe anche come frutto un figlio, Ludwig, nato quando la coppia si era già separata nel 1992. La cosa finì in tribunale, la Staller si portò il bimbo in Italia, lui la accusò di sequestro, lottò per riavere il bambino, di cui ottenne la custodia anche se non servì a nulla, e fondò il Koons Family Institute che ancora si impegna insieme al Centro internazionale per i bambini scomparsi e sfruttati. L’artista giunse ai limiti della bancarotta per i costi della battaglia legale sommati a quelli della sua crescente ambizione, plasmata nelle gigantesche sculture di acciaio satinato e nelle forme falliche («nella forma fallica si fonde il femminile e il maschile») di Celebration: cagnolini, uova e tulipani con cui voleva mandare un messaggio d’amore al piccolo Ludwig.
Comunque è riuscito a risollevarsi, e a rifarsi una vita con l’aiuto dei suoi fedeli collezionisti. Koons si è risposato con l’artista sudafricana Justine Wheeler, che ha conosciuto come collaboratrice nel suo studio. Insieme hanno sei figli (in totale lui ne ha otto: oltre a Ludwig, ebbe una figlia quando era studente al Maryland College of Art, poi data in adozione). «Ludwig oggi ha ventidue anni e poco tempo fa è venuto negli Stati Uniti a trovarmi, prima o poi si trasferirà per venire a vivere con i suoi fratelli». I suoi figli più piccoli hanno visto Made in Heaven? «Sì, e non hanno detto niente, né hanno chiesto spiegazioni, sono semplicemente andati oltre. L’hanno contemplata come qualsiasi opera d’arte, come chi vede un Fragonard, un Courbet o un Poussin. Tutti i miei figli godono di una grande sensibilità artistica».
Sembra davvero convinto che il meglio debba ancora arrivare. Ha fiducia nel fatto che al di là dei «limiti inerenti all’essere umano, lo aspetta uno stato superiore di saggezza». E quando, alla fine, arriva la domanda – ovvero: si pente di essere stato un pioniere di molte delle cose negative (il culto della fama, l’abuso della pubblicità, la civetteria con i grandi marchi del lusso...) che oggi definiscono il mondo dell’arte – per la prima volta il suo sorriso rimane congelato in una smorfia di sincero stupore: «No, assolutamente no. Perché dovrei?».
(Traduzione di Luis E. Moriones)
©El País Semanal/Lena