la Repubblica, 13 dicembre 2015
Racconto di un concerto al Bataclan. Parla una coppia sopravvissuta alla strage
“I’ll love the devil/ I’ll sing his song/ I will love the Devil and his song”. Non hanno mai smesso di ascoltare quella canzone, e neppure gli Eagles of Death Metal, neppure dopo aver sfiorato la morte a vent’anni in un concerto che ha cambiato per sempre la loro visione del mondo. Amaury Baudoin e Isobel Bowdery erano dentro il Bataclan un mese fa, il 13 novembre.
Lui è nato a Bordeaux ventiquattro anni fa, studia recitazione. Lei è più giovane di due anni, si è laureata in giurisprudenza a Città del Capo, è venuta a Parigi per imparare il francese. «Amaury è un artista, molto creativo, io sono più razionale» scherza Isobel nel monolocale del dodicesimo arrondissement, davanti a un tazza di tè, in mezzo ai cimeli di quella sera: il biglietto del concerto, la maglietta insanguinata. Alla porta è appeso un poster di “Je suis Charlie”, lo slogan che aveva riunito milioni di persone nel gennaio scorso. «Questa volta non c’è stata nessuna manifestazione – osserva Amaury – ma sono accadute tante cose belle: abbiamo ricevuto messaggi di solidarietà dal mondo intero, la Marsigliese e il tricolore erano ovunque, c’è stato anche un raduno degli imam per respingere la violenza».
Amaury e Isobel sono la gioventù che ballava dentro a quel teatro un mese fa, tollerante e cosmopolita: “Generazione Bataclan”. «È un termine che per noi non significa molto» commenta Isobel. «Ora che lo choc è passato, spero che la Francia non cambi. Più dei terroristi, mi fanno paura i politici che cavalcano la paura e l’odio» racconta Amaury. Sta per partire con la fidanzata per una lunga vacanza in Sudafrica, tutti e due sperano di voltare pagina. Di quella notte ricordano ogni istante.
Amaury: «È un venerdì, un venerdì normale. Isobel esce da scuola all’ora di pranzo, io finisco il conservatorio nel pomeriggio. Partiamo in metrò verso le sette per prendere i posti in prima fila. Dovrebbe raggiungerci anche un amico, cambia idea all’ultimo minuto. Il Bataclan è strapieno, ci prendiamo due birre. È una delle poche sale di Parigi in cui il bar è così vicino al palcoscenico. Il concerto comincia alla grande, tutti ballano, pogano, scattano selfie. Gli Eagles of Death Metal sono uno dei miei gruppi preferiti, non è metal, è rock festaiolo, un po’ delirante. Anche la canzone che stavano suonando al momento dell’attacco, Kiss The Devil, è una parodia. Una paradoia del satanismo. Ripensandoci ora quel titolo mi fa venire i brividi».
Isobel: «Io gli Eagles of Death Metal non li conoscevo. È Amaury che mi ha proposto di andare, è il nostro primo concerto da quando ci siamo messi insieme, a giugno, un mese dopo il mio arrivo a Parigi. Almeno per me è stato un colpo di fulmine – anche se sapevo che poi, ora, a dicembre, sarei dovuta tornare a Città del Capo. Mi volevo godere le mie ultime settimane in Francia. Il concerto allora. Ci perdiamo quasi subito, la gente che poga. Amaury finisce davanti al palco, io rimango un po’ in disparte, preferisco ballare nella parte più calma. Il concerto comunque è fighissimo, mi piace una canzone in particolare: I Want You So Hard».
Amaury: «Rimaniamo separati per due o tre canzoni. Cerco Isobel con lo sguardo tra la folla. Poi all’improvviso i ragazzi intorno a me si abbassano. Strano ballo. Per imitazione mi chino anch’io. Solo quando la musica si interrompe sento pam- pam- pam. Le raffiche di kalashnikov non fanno un rumore terribile. Sembrano più petardi. Io sento qualcosa tagliarmi la coscia, è una scheggia di proiettile. Un’altra mi si conficca nella spalla. Mi giro e vedo il profilo di un uomo che sta sparando. Le mie gambe si mettono a correre prima ancora di realizzare cosa stia succedendo. Istinto di sopravvivenza. Spintono altri spettatori davanti a me, protestano, “Non puoi fare attenzione? Un po’ di rispetto no?”. Non hanno capito. Ora sono saltato sul palco e mi rifugio dietro le quinte, cerco una finestra che non c’è. Sul cellulare faccio il 17, il numero della polizia.
Passano cinque minuti prima di avere risposta: “Sono al Bataclan, c’è un pazzo che spara!”. “Lo sappiamo, stiamo arrivando. Fuggite se potete!”. Non è granché come aiuto, ma forse non possono dirmi altro».
Isobel: «Quando sento gli spari mi butto a terra. Non ricordo di aver visto i terroristi. Invece ho sentito le urla, voci in francese e arabo. E le scariche di kalashnikov che non finiscono mai. Un uomo sdraiato accanto a me cerca di tranquillizzarmi: “Andrà tutto bene, calmati, andrà tutto bene”. Vicino a me c’è una coppia. Il ragazzo vuole proteggere la fidanzata, le ripete “Je t’aime, je t’aime”. Le scariche durano almeno dieci minuti. Non so, un’infinità di tempo. Chi si muove, chi corre verso le uscite di sicurezza, viene ucciso. Io a scappare non ci provo neppure. Faccio la morta. Rimango immobile, gli occhi chiusi. Respiro piano. Nella mia testa comincio a salutare la mia famiglia, Amaury, le mie amiche. Ripenso ai momenti più belli della mia vita. Non voglio dare ai terroristi la soddisfazione di farmi morire impregnata del loro odio. Dentro al Bataclan c’è il Male, ma c’è anche tanto Bene. Ragazzi senza umanità, e altri che fino all’ultimo hanno parole o gesti di compassione. Sono loro quelli di cui mi voglio ricordare».
Amaury: «Mi nascondo dentro al bagno di un camerino. Siamo in sette in un metro quadrato. Parliamo di quelli che sparano. Io ne ho visto solo uno, altri dicono che sono tre, forse quattro. È a quel punto che capisco che a sparare non è un pazzo isolato, ma un gruppo, terroristi venuti per fare un massacro. Ok, mi dico, sono in trappola, come un topo, tra poco sarò morto. Comincio a chiamare i miei genitori, gli amici più cari. In quel bagno faccio una decina di telefonate, un saluto rapido, niente cose lunghe. So che Isobel è in mezzo alla sala. Vorrei chiamarla ma è venuta al Bataclan senza cellulare. È la sua salvezza».
Isobel: «I terroristi si accorgono che alcuni spettatori sono ancora vivi per i loro cellulari, squillano, la gente cerca di rispondere. Io continuo a fare la morta, anche quando i terroristi si allontanano. Resto immobile finché non sento qualcuno in piedi accanto a me. “Sortez”, uscite, dice una voce. Non mi fido. È un poliziotto. Mi scuote per capire se sono viva. Mi rialzo. Sono una delle poche persone che può rialzarsi. L’uomo che mi aveva consolato rimane a terra, anche la coppia che ho sentito parlare all’inizio della sparatoria. Guardo verso il palco, c’è un ragazzo morto, mi sembra Amaury. Esco dal Bataclan convinta di non rivederlo mai più».
Amaury: «Resto nei bagni del Bataclan per altre due ore. Dopo aver finito di sparare in sala i terroristi entrano nei camerini a sinistra della scena, per fortuna dalla parte opposta a quella in cui sto io. Un uomo vicino a me cerca di convincerci: “Se arrivano, dobbiamo saltargli addosso, dobbiamo batterci”. Momenti surreali. Un ragazzo chiede di avvicinarsi al water per fare la pipì mentre una ragazza perde molto sangue e due persone premono sulle sue ferite. Ottimismo disperato. Poi un’esplosione scuote le fondamenta del teatro. Il soffitto in parte crolla, le tubature si rompono, comincia a piovere sulle nostre teste. Mi dico: morirò così, sotto i calcinacci. Finalmente vedo le divise dei poliziotti. Ma per uscire devo attraversare tutta la sala. Gli agenti ci chiedono di non guardare a terra. Io tra i corpi cerco Isobel. Il silenzio è irreale. Mi vengono in mente i racconti del massacro dei nazisti a Oradour-sur-Glane».
Isobel: «Sto ancora piangendo. Ho sangue sui capelli, ho sangue ovunque. Una signora mi vuole dare una maglietta pulita. Dietro un angolo vedo spuntare Amaury».
Amaury: «Sento qualcuno saltarmi al collo. Non capisco subito. È il più bell’abbraccio della mia vita. Dico a Isobel: “It’s over now, c’est finì”. Per noi è finita. E so che può sembrare egoista perché intorno a noi c’è ancora l’inferno».
Isobel: «Non so, non so bene che dire adesso. C’è quasi un senso di colpa per essere usciti sani e salvi dal Bataclan. Abbiamo avuto una fortuna incredibile. Ci siamo baciati a lungo. E io ho detto al mio eroe francese “I love you”».
Amaury: «Davvero? Non me lo ricordo. Ti amo anch’io Isobel».