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 2015  dicembre 13 Domenica calendario

Gli scarabocchi di Calvino

Tutte le biblioteche private custodiscono un alfabeto segreto. Negli accostamenti fisici e nelle lontananze. Nei pieni e nei vuoti. Nei volumi a portata di mano e in quelli inaccessibili. La biblioteca di Italo Calvino conserva un segreto ancora più profondo che è il libro inedito delle sue note a margine. Frammenti di discorso appuntati negli spazi bianchi delle pagine, immenso puzzle che copre mezzo secolo di letture, percorsi immaginari e fili del pensiero infine riannodati nel grande cantiere delle Lezioni americane.
E sembra un gioco tipicamente calviniano questo libro scritto sui libri degli altri, dagli scherzi infantili sui testi scolastici – lo slogan “fesso chi legge” annotato sul Fedone di Platone, meraviglioso contrappasso – ai cinque cartoncini ritrovati tra le pagine di Lucrezio, il poeta della materia che smaterializza il mondo.
È una importante officina di lavoro quella scoperta da Laura Di Nicola, italianista dell’Università La Sapienza, tra i 7.650 volumi di casa Calvino, in piazza Campo Marzio, a Roma. Un archivio sotterraneo di note critiche, citazioni, sottolineature a cui la studiosa lavora da tempo, unica ammessa nello scacchiere di carta dello scrittore che è anche proiezione dei desideri e biblioteca mentale. Ed è dalle parole silenziose trascritte sui libri che emerge un affascinante gioco di specchi tra lettura e scrittura, tra l’elogio della brevità del giovane Calvino critico e la pratica delle short stories del Calvino scrittore. Una trama di suggestioni che si arricchisce nell’ultimo tratto di vita nell’intreccio tra la collaborazione a Repubblica e la preparazione delle Lectures per l’Università di Harvard dove “leggerezza”, “molteplicità”, “esattezza” e “rapidità” sono esemplificate per larga parte sugli autori recensiti per il giornale, dalla Dickinson a Kundera, da Gadda a Perec, da Ponge a De Santillana. E forse non è casuale che il cantiere sui “valori letterari da conservare nel prossimo millennio” – il suo commiato dal mondo – sia stato idealmente aperto sulle pagine del quotidiano diretto da Eugenio Scalfari, l’amico con cui Calvino al liceo aveva cominciato il viaggio nella conoscenza.
Dalle note scolastiche occorre ripartire – soprattutto disegni, ritratti di creature omeriche, il profilo somigliantissimo di “Calvinus” accanto a quello di “Vergilius” – per coglierne l’inclinazione al fantasticare sempre pervasa dal sorriso. Lo schermo trasparente dell’ironia è il filo conduttore degli appunti giovanili, nel costante chiaroscuro di ombra e luce, malinconia e ilarità, saturnino e mercuriale (“Sono un saturnino che sogna di essere mercuriale”, avrebbe detto di sé). È “l’umorismo triste e colorato” che appena ventenne lo trafigge dalle pagine di Buzzati, ma è soprattutto la “vendetta allegra” di Lee Masters, il “contrappasso burlesco” e “la grazia triste del cippo funerario” enfatizzati in quegli stessi anni sotto le poesie di
Spoon River. Con lo scrittore americano, con la sua capacità di condensare “drammi e romanzi aggrovigliati” in poche righe, scatta un vero innamoramento (ma Lee Masters sparirà dai suoi riferimenti nelle Lezioni americane).
E ai commenti sull’architettura del testo s’accompagnano riflessioni sull’amore (“insieme alla poesia una delle vie di riscatto”), sull’erotismo come “principale movente delle azioni umane”, sull’anticonformismo in lotta con il puritanesimo corrotto, sulla centralità della memoria, sulla polemica anticlericale e antimilitarista. «Il Calvino ventenne che compulsa i versi di Spoon River è anche il ragazzo che sta per lanciarsi nell’avventura della Resistenza», fa notare Di Nicola, che su questi preziosi materiali sta preparando un saggio. È l’inizio di un’altra storia, quella che segna l’ingresso nell’età adulta.
Dopo il 1944 cala il silenzio sulle note a margine. I copiosi appunti che invadevano gli spazi bianchi sono sostituiti da un numero di pagina, un richiamo, una parola appena, in un’accresciuta riverenza verso l’oggetto libro. Solo negli anni Ottanta, con il trasferimento a Roma e dunque la definitiva sistemazione della biblioteca, Calvino torna alle antiche abitudini, in un rapporto meno discreto con i suoi scaffali sempre più rispondenti a un ordine interiore. Una rete di note copre la prima pagina del
Dialogo dei massimi sistemi di Galileo, altro architrave delle lezioni di Harvard sulla rapidità. Ed è la velocità della mente di Calvino che galoppa in questi fogli anticipatori, dove “il discorrere” è paragonato al “correre” (citazione dal Saggiatore) nell’agilità dei ragionamenti e nell’economia degli argomenti.
Ma la velocità calviniana è molto diversa da quella mediatica che incalza proprio in quel passaggio d’epoca, non è trasmissione “appiattita in crosta uniforme” ma “comunicazione di ciò che è diverso in quanto è diverso”, che è poi “la funzione della letteratura che esalta la differenza”. Con la sua grafia regolare, negli spazi bianchi del Dialogo dei massimi sistemi, Calvino enfatizza la più grande invenzione umana celebrata dal personaggio di Sagredo: l’alfabeto, “i vari accozzamenti di venti caratteruzzi sopra una carta”. Che cosa c’è di più di eversivo di quell’arte “combinatoria” che mette in contatto “ogni cosa esistente e possibile”? Contro “la peste” che avanza, come ultimo baluardo resta solo la scrittura.
Il filo dell’alfabeto ci conduce tra le pagine della versione francese di Lucrèce, De la nature, dove sono nascosti cinque cartoncini annotati sul retro. Qui lo scrittore si concentra sulle metafore della sostanza pulviscolare che alleggerisce le cose. Ma per Lucrezio anche “le lettere sono atomi in movimento che creano le parole e i suoni più diversi”. La leggerezza è un modo di vedere il mondo, uno stile, un modo di rappresentarlo nella scrittura. Nessuno meglio del poeta latino, il poeta dell’invisibile e del nulla, può inaugurare le sue conferenze americane. Il peso della materia, il peso del vivere. Anche in questo zigzagare tra uno scaffale e l’altro, tra geografie mentali distanti, Calvino cerca la sua via di fuga. “Nella vita tutto quello che apprezziamo come leggero non tarda a rivelare il proprio peso insostenibile. Forse solo la vivacità e la mobilità dell’intelligenza sfuggono a questa condanna”. Lo scrive a proposito di Kundera ma sembra parlare di sé.

Simonetta Fiori

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Il più grande scrittore italiano del secondo Novecento, e cioè Italo Calvino, presenta, se lo si guarda con attenzione, due diversi e, almeno apparentemente, assai contrastanti modi di osservare la realtà: o la guarda molto da vicino o la guarda molto da lontano. Si potrebbe dire che, per vedere meglio, usa alternativamente il microscopio e il telescopio. Se è così, nell’uno come nell’altro caso si tratta di un diverso uso dello sguardo.
Lo sguardo, ossia il modo di guardare, ossia l’occhio, ossia tutte le forme possibili, le attitudini, i movimenti dell’occhio, sono fondamentali nell’approccio al mondo, anche nell’approccio concettuale al mondo, da parte di Calvino. E, naturalmente, l’occhio condiziona il cervello, e cioè interessi e stile dell’osservazione, e ne fa in lui un organo di tipo nuovo, senziente e comprendente allo stesso modo.
Naturalmente, per giustificare queste affermazioni, bisognerebbe seguire passo passo l’intera ricerca e produzione letteraria di Calvino, da Il sentiero dei nidi di ragno a Se una notte d’inverno un viaggiatore e a Palomar.
Basteranno qui poche, essenziali citazioni testuali. Lo sguardo da vicino, il microscopio. Mi riferisco prevalentemente, ma non solo, a due spettacolari campioni di poetica autobiografica o, se si preferisce, di autobiografia poetica, come La strada di San Giovanni (1963) e Dall’opaco (1971). Nel primo il motivo di maggior rilievo è il ritorno al passato: la Liguria primigenia e protostorica; l’infanzia e l’adolescenza dello scrittore. La strada di San Giovanni è quella che porta dalla villa dei Calvino, ai margini di San Remo (peraltro mai nominata), alle loro proprietà terriere in alta collina. Per il padre di Calvino, agronomo e possidente, “il mondo era di là in su che cominciava, e l’altra parte del mondo, quella di giù, era solo un’appendice”. Per il giovanissimo Calvino, tutto il contrario: “Per me il mondo, la carta del pianeta, andava da casa nostra in giù, il resto era uno spazio bianco, senza significati…”. Stesso ragionamento in Dall’opaco. L’”opaco”, com’è ovvio, è il contrario dell’”aprico”: l’ubagu e l’abrigu, nel dialetto ligure di Ponente, che si fronteggiano, fra mare, costa e collina, nello spazio ben delimitato di un golfo, che va da un promontorio all’altro, e che lì dentro e da lì in fuori confina e definisce il resto del mondo, come le due rispettive metà di una conoscenza che rischia di non diventare mai un’unità se non si assume la posizione giusta dello sguardo da cui dipende poi tutto il resto. E come? Ce lo spiega lo scrittore stesso: “’D’int’ubagu’, dal fondo dell’opaco io scrivo, ricostruendo la mappa di un aprico che è solo un inverificabile assioma per i calcoli della memoria, il luogo geometrico dell’io, di un me stesso di cui il me stesso ha bisogno per sapersi me stesso, l’io che serve solo perché il mondo riceva continuamente notizie dell’esistenza del mondo, un congegno di cui il mondo dispone per sapere se c’è”. L’adolescenziale spinta all’”in giù”, che non può prescindere, perché altrimenti neanch’essa ci sarebbe, dalla paterna spinta all’”in su”, è la precondizione per cui lo sguardo maturo si sollevi un giorno al di sopra delle teste circostanti e guardi, invece che verso il basso, verso l’alto.
E dunque: lo sguardo verso l’alto e da lontano. A far da spartiacque fra l’una e l’altra fase della ricerca calviniana sta La giornata di uno scrutatore (1963). La scoperta, dolorosa e traumatica, ma anche, in un certo senso, liberatoria, che oltre il mondo della coscienza e del sapere s’apre la voragine dell’incoscienza, dell’inabilità e del non-sapere: l’universo, in un certo senso concentrazionario, del gigantesco ospizio torinese del Cottolengo. Da quel momento, restare e guardare dove si è, non basta più a Calvino. E il suo sguardo si alza, e si volge lontano. Il mondo diviene il mondo delle cento città – Torino, Parigi, New York, San Francisco, Roma – l’una trasmutabile nell’altra, e pure ognuna ancorata alla sua imperdibile e inconfondibile identità, come in un gioco caleidoscopico di specchi. E la letteratura diventa anch’essa un gioco caleidoscopico di infinite possibilità di combinazioni ed esperimenti: solo per citare i titoli più significativi, Le città invisibili (1972) e Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979).
Dunque, un Calvino prima e un Calvino diverso poi, lungo un percorso rettilineo che porta dal più semplice al più complesso, e lì si ferma, perché il complesso è meglio del più semplice? La mia tesi invece è che in Calvino, sempre, nel vedere da vicino c’è il vedere da lontano e nel vedere da lontano c’è il vedere da vicino. Se ne potrebbero citare decine di prove e di riprove. Ma io mi limiterei ai testi già chiamati in causa, e perciò ripartiamo, completandola, da una citazione già fatta. La strada di San Giovanni, Calvino adolescente: “Io no, tutto il contrario: per me il mondo, la carta del pianeta, andava da casa nostra in giù, il resto era spazio bianco, senza significati…”; e però, prosegue Calvino, “i segni del futuro mi aspettavo di decifrarli da quelle vie, da quelle luci notturne che non erano solo le vie e le luci della nostra piccola città appartata, ma la città, uno spiraglio di tutte le città possibili” (corsivo di Calvino). Capite? Siamo ancora nel ’60. E già Calvino, anticipando i tempi – anche i suoi tempi, di sicuro i nostri – scopriva che in ogni minuscolo ritaglio del mondo c’è il mondo e che, forzando un po’ il gioco, nelle luci della piccola e appartata San Remo c’è il nocciolo di cento altre potenziali città, visibili e “invisibili”.
Stando così le cose si capisce meglio perché Calvino possa essere considerato, diversamente da quasi tutti gli altri scrittori italiani del suo tempo, uno scrittore italiano, che sia però al tempo stesso spontaneamente cosmopolita. Se “il mondo” per lui “andava da casa mia in giù”, fare a meno di andare “in giù” ma, anche al tempo stesso, di essere tentato di andare “in su” sulle orme antiche di suo padre; e se nella modesta realtà della sua cittadina, che addirittura lui non riesce neanche a nominare, e tuttavia è “la città”, ci sono potenzialmente tutte le città del mondo, e se l’”opaco” e l’”aprico” sono sempre le due metà del mondo, dell’universo mondo, allora diventa più facilmente comprensibile che Calvino sia, o diventa, cittadino al tempo stesso di San Remo e di Parigi, di New York e di Roma, e parli la lingua delle cento, delle mille città. Anche l’ultima forma di osservazione esibita da parte sua, quella di Palomar (1983), si colloca all’interno di questo profilo. In Palomar, infatti, compare il terzo Calvino: sguardo e cervello sono ormai indistinguibili, il mondo visto da vicino (il geco, le tartarughe, gli storni) ha la stessa valenza del mondo visto da lontano (le onde del mare, le costellazioni celesti). E – sia caso o causalità – la prospettiva incombente della morte s’affaccia a dare uniformità al tutto. Il mondo, della cui dissoluzione, personale e universale, in queste pagine ci parla, è il nostro mondo. Basta volgersi intorno oggi per accorgersene. Del resto, anche la morte può essere un fattore comunitario formidabile, pur deprecabile. Nel dirlo la lingua di Calvino è anch’essa perfettamente universale, non presenta più nessuna gradazione idiomatica. E pure, nell’ascoltarlo, sappiamo benissimo da dove viene – e perché.
Alberto Asor Rosa