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 2015  dicembre 13 Domenica calendario

In difesa del vino Ogm

Da almeno quindici anni la ricerca pubblica italiana su piante geneticamente migliorate è al palo. Governi di destra e di sinistra ci hanno negato la libertà di studiare. Si è impedito, contro la Costituzione, ai nostri ricercatori pubblici di lavorare.
Lavorare per capire come proteggere le nostre piante tipiche nelle condizioni di campo che le estinguono a causa dei parassiti. Così le stiamo perdendo. Da decenni i nostri buonissimi formaggi Doc sono fatti grazie alle piante Ogm coltivate in paesi evidentemente più liberi. Entrano in Italia da ogni rotta. Ma ai nostri imprenditori è negata la libertà di coltivarle sulle loro terre, sebbene giudicate sicure per l’ambiente. Le coltivano all’estero, per noi, imprenditori stranieri. Da sempre l’Italia non è Ogm free. Cosa ci abbiamo guadagnato dopo 15 anni di “no” alla ricerca pubblica sugli Ogm? Noi cittadini nulla. L’Italia – con una bilancia commerciale da brividi – continua a perdere piante, a coltivare semi ormai deboli, a versare fiumi di denaro per importare mangimi Ogm, a pagare le multinazionali della chimica per intossicare le nostre terre, a non poter trattenere i giovani biotecnologi che del nostro Paese non ne vogliono più sapere. Mi colpisce questo sonno della ragione. Mi chiedo quali vincoli possano impedire a un ministro di avviare le procedure per rendere finalmente liberi i nostri ricercatori pubblici di studiare come salvare le nostre piante.
È quanto chiedeva il 28 novembre, su queste pagine, il noto viticoltore del barbaresco Angelo Gaja. In quell’articolo le tre componenti di un sano e responsabile progetto di ricerca in ambito agrario sembravano finalmente parlare la stessa lingua. Scienziati che chiedono di utilizzare il miglioramento genetico per abbattere l’uso di agrofarmaci, imprenditori che avvertono il rischio concreto di perdere uno dei vanti della cultura e coltura italiana (la vite), preda di patogeni sempre più efficaci, ed infine il decisore politico che smette i panni del “Signor No”. Il concetto è lineare. Se non si migliorano geneticamente le viti siamo costretti ad usare sempre più fungicidi, sempre più ossido di rame, che è altamente tossico per noi, per la fauna dei suoli e per la salute stessa delle piante. È il riconoscimento dell’importanza della modificazione genetica delle piante. Con dei “sofisticati innesti” di geni provenienti da viti selvatiche si può ridurre del 90% quei trenta trattamenti annui con metalli pesanti, come il rame, sui grappoli d’uva. Ma le innovazioni genetiche hanno un senso solo se possono essere valutate in accurate sperimentazioni in campo aperto condotte allo stesso modo e con le stesse regole di sicurezza che vigono in Francia, Germania, Spagna o Gran Bretagna.
Ma è sempre buio fitto. Lo scorso 3 dicembre, in Senato, il Ministro Martina ha subordinato ogni impegno alla condizione che le ricerche siano svolte in laboratorio. In altre parole, si potrà fare ciò che già si fa: un’improduttiva ricerca con piante che crescono in serra. Fuori le nostre piante tipiche si estinguono. Non solo. Il Ministero promuoverà solo le tecnologie di “genome editing e cisgenico”, che necessitano comunque – ed in questo aspettiamo l’Europa – d’esser qualificate giuridicamente come qualcosa di diverso dagli Ogm. Definire come giuridicamente diverso ciò che è scientificamente uguale (sempre di “taglia e cuci del Dna” si tratta) può essere una ennesima alchimia politica a cui la scienza non si dovrebbe prestare. Perché nel mio laboratorio uso il genome editing per generare un Ogm. Insomma sembra che nulla si muoverà, nemmeno le invocate nuove tecnologie già bollate dagli ecologisti più accesi di essere peggio degli Ogm. Eppure a maggio di quest’anno il Senato era pronto a votare un ordine del giorno per la ripresa della ricerca pubblica in campo. E i produttori agricoli sono in fermento perché vendono derrate sotto il prezzo di costo. Nello stesso periodo il ministro Martina scriveva che giudicava interessante la proposta di creare corsi universitari specifici sull’agricoltura “biodinamica”. Disorienta che un Ministero possa disinvoltamente elogiare tanto il genome editing quanto il cornoletame (provate a cercare di cosa si tratta) dell’agricoltura “biodinamica”. Ecco da cosa fuggono i giovani.
Ma proviamo comunque a seguire il ragionamento dell’imprenditore Gaja che pensa alle sue viti. Le viti occupano in Europa il 3% di tutte le superfici coltivate. Se il miglioramento genetico vale per le viti, che progetti mettere in campo per il 97% delle coltivazioni? Come seguire lo stesso percorso virtuoso e arrivare ad abbattere l’uso di fungicidi su melo, pomodoro o grano consentendo ai nostri studiosi e imprenditori agricoli di competere per la miglior qualità possibile? Come possiamo non solo tutelare, ma aumentare la biodiversità vegetale mediante le biotecnologie in grado di salvare le tante varietà a rischio estinzione?
Si deve iniziare subito la sperimentazione di campo sulle viti migliorate. Ma sulla scia dell’apripista, ciascuno si deve impegnare a discutere nel merito su che progetto abbiamo per l’intera agricoltura italiana. Perché non ci sono solo le viti. Ma anche centinaia di ricercatori pubblici con progetti per salvare le piante italiane con strategie che usano gli stessi principi applicati alla vite. Perché il concetto è il medesimo: con la genetica si abbattono i trattamenti con agrofarmaci e si tutela la varietà delle nostre piante anche per il futuro. Nel solo mese di settembre la Germania (che non coltiva Ogm e le cui multinazionali ci vendono tonnellate di insetticidi) ha annunciato la sperimentazione in pieno campo di cinque piante Ogm (ricerca pubblica). Possibile che i più astuti siamo sempre noi?