la Repubblica, 13 dicembre 2015
Le vera domande da farsi su questa storia di risparmio tradito
Quattro piccole banche locali, appena 1% del totale dei depositi, sono andate in crisi. La crisi è diventata politica, sull’onda delle giuste rimostranze dei risparmiatori. Come però accade in questi casi, invece di analisi, discussioni e proposte per assicurare che il fenomeno non si ripeta, fioriscono slogan, risse, caccie al colpevole, scaricabarile: un polverone che nasconde le vere domande che questa ennesima storia di risparmio tradito avrebbe dovuto porre:
1. Motivazioni e obiettivi della nuova legge sulle risoluzioni delle crisi bancarie sono validi oppure no? 2. Il fallimento delle quattro piccole banche è un caso isolato o indicatore di un generale malessere del sistema bancario e della sua governance? 3. Come è possibile che piccoli risparmiatori abbiano investito in titoli ad alto rischio? Comportamenti negligenti di singoli, o un sistema carente in fatto di trasparenza? 4. Più in generale, la regolamentazione che abbiamo necessita di riforme? 1. La nuova legge sulle risoluzioni bancarie non è frutto della burocrazia di Bruxelles, ma figlia della crisi. Se i governi, anche implicitamente, garantiscono soci e creditori dalle perdite delle banche in dissesto, creano incentivi perversi: il paracadute dello Stato riduce l’incentivo per azionisti e obbligazionisti a controllare l’operato del management; che a propria volta sa di potersi assumere rischi eccessivi, che può finanziare a un costo non commisurato. Inoltre, date le dimensioni dei sistemi bancari, un salvataggio pubblico può innescare una crisi del debito sovrano. Questo è accaduto in tanti paesi dopo il 2008. La nuova legge riporta in capo ad azionisti e creditori l’onere di controllare la gestione, garantendo in toto solo chi ha depositi sotto i 100mila euro, presumibilmente piccoli risparmiatori; riduce il costo del capitale per le banche meglio gestite (oggi un subordinato Unicredit Tier 1 rende circa il 4%, contro il 7% di uno equivalente del Banco Popolare e il 13% di Carige); e separa le crisi bancarie da quelle del debito pubblico. Il decreto del governo sulle quattro banche anticipa spirito e contenuti della nuova legge, rispetto alla quale redistribuisce gli oneri del salvataggio, ma in misura limitata: come ho già documentato su queste colonne, protegge gli obbligazionisti e tutti i depositanti trasferendo il rischio del capitale e delle sofferenze alle banche (tramite il Fondo di risoluzione); protegge le banche da perdite sulle sofferenze con la Cassa DDPP; e preclude al debito subordinato di partecipare agli eventuali maggiori guadagni dalla cessione delle sofferenze (realisticamente, meno di 10 centesimi, ben poco per alleviare il costo per i risparmiatori). La legge, quindi è un’importante riforma. E il decreto, una buona soluzione. Abi e Bankitalia accusano Bruxelles di aver impedito al Fondo Tutela dei Depositi di salvare le banche. Sarebbe stato assurdo usare fondi destinati ai depositanti (lo dice il nome) per tutelare azionisti e creditori subordinati (gli unici che perdono), e in aperto contrasto con lo spirito e la lettera della nuova legge che l’Italia ha appena varato. Altri accusano il governo di non essere intervenuto con un salvataggio pubblico, fregandosene di Bruxelles, come, per esempio, ha fatto la Germania. A prescindere che l’intervento del governo oggi sarebbe stato in contrasto con la sua nuova legge, ci si dimentica che gli Stati possono intervenire solo se gli investitori sono disposti a sottoscrivere il nuovo debito pubblico necessario per salvare le banche. Se oggi l’Italia paga tassi bassi sui Btp è anche perché non può fare salvataggi; se lo facesse, lo spread aumenterebbe, aumentando la spesa per interessi e l´onere complessivo per i cittadini. É questo che si vuole? Il governo italiano avrebbe dovuto comportarsi all’indomani della crisi come il Tesoro americano. In poche settimane ha preteso stress test stringenti per ripulire i bilanci bancari, aumenti di capitale alle 10 maggiori banche con soldi pubblici, azzerato tutti i vertici, e imposto fusioni alle più deboli. Due anni dopo il sistema bancario Usa era ristrutturato e nuovamente privatizzato. Invece noi per anni abbiamo negato il problema. E quando è deflagrato, lo Stato non è potuto intervenire perché nessuno avrebbe sottoscritto il debito pubblico necessario a farlo (o a costi proibitivi). Si poteva chiedere un prestito ufficiale, ma avrebbe imposto condizioni che erano politicamente inaccettabili. La polemica con Bruxelles e la Germania è quindi uno scaricabarile per distogliere l’attenzione dai veri problemi. 2. Bisogna piuttosto domandarsi come mai lo stato di dissesto delle 4 banche sia emerso così in ritardo (e solo dopo la review degli attivi richiesta dalla Bce), e non si sia trovata una soluzione diversa dal fallimento, viste le loro modeste dimensioni. Preoccupa poi che i dissesti siano prevalentemente frutto di crediti facili, favoritismi, operazioni con parti correlate, investimenti avventati e una totale carenza di controlli e valutazione dei rischi; ovvero gestioni colpevolmente negligenti (a volte dolose) e governance disastrose. E che siano le stesse cause delle crisi di tante altre banche, ancorché non fallite: Mps, Carige, PopVicenza, Banco Popolare, VenetoBanca. Qui Bankitalia è responsabile: ha ritenuto, erroneamente, che la sanzione pubblica di una banca, o il commissariamento, potessero creare la percezione di un “rischio paese”, e ha cercato soluzioni concordate “dietro le quinte” che hanno portato a lungaggini e compromessi, mai ottimali. Inoltre, come le altre banche centrali, ha assunto un atteggiamento protettivo delle banche nazionali, allineando così le posizioni di vigilante e vigilati: in tanti anni, non ricordo forti contrasti tra Abi e Bankitalia. Non spetta però a Bankitalia gestire le banche. La prima difesa viene dalla responsabilizzazione di chi è chiamato a controllare (presidente, consiglieri, sindaci, internal audit, risk manager), ma anche dei dirigenti che non possono esimersi dall’opporsi ad operazioni contrarie all’interesse della azienda o scorrette. Tutti devono essere chiamati a rispondere e pagare personalmente per i propri comportamenti. La seconda dal monitoraggio che spetta agli azionisti, troppo spesso solo alla ricerca di poltrone e potere. Va cambiata la governance. La legge per la trasformazione in Spa delle popolari, l’accordo Acri-Mef per il disimpegno delle fondazioni e la vigilanza unica della Bce potrebbero innescare un vasto processo di fusioni, aggregazioni e ricambio dei vertici indispensabile per un sistema bancario e una governance più efficiente. Ma sette anni dopo l’inizio della crisi non c’è ancora stata una singola acquisizione o fusione in un sistema bancario debole e frammentato. E dopo tre aumenti di capitale, oggi Unicredit si trova a dover licenziare 18.000 dipendenti. I condizionamenti del passato impongono tempi lunghi: troppo lunghi per uscire dalla crisi. Il processo va accelerato. (1- continua)