la Repubblica, 13 dicembre 2015
«Così in banca hanno ingannato me e Luigino». Parla la moglie del pensionato che s’è impiccato
«Ci fidavamo di Marcello Benedetti, è vero quello che ha dichiarato nell’intervista a Repubblica. Io e Luigino ci fidavamo tanto di lui, per noi era un amico ed è lui che ci convinse a investire la liquidazione e i risparmi di mio marito». La villa color crema di Lidia Di Marcantonio, la vedova del pensionato suicida di Civitavecchia, è accogliente. In quel salone pieno di soprammobili e di quadri ha trascorso 25 anni della sua vita accanto a Luigino.
Accanto al tavolo rotondo con una tovaglia di canapa rosso scuro c’è ancora il computer dove Luigino D’Angelo ha lasciato scritta la lettera di addio in cui accusava la banca Etruria di aver rubato i suoi risparmi di una vita. Nessuno lo ha ancora sequestrato, malgrado contenga la prova regina delle sue disperazioni quotidiane, una sorta di diario, contro una banca che «scientemente», come dichiarato dall’impiegato Benedetti che ha fatto sottoscrivere la pratica di acquisto di obbligazioni subordinate ai coniugi D’Angelo, ha sottratto i risparmi a centinaia di correntisti. Poco oltre la scrivania c’è la scala che porta al piano di sotto, e la ringhiera dove con una corda il 28 novembre Luigino si è tolto la vita. Sulla parete opposta, le cornici a giorno dei viaggi di una coppia felice.
Signora Lidia, non aveva capito quanto disperato fosse suo marito?
«Assolutamente no. Le dico solo che la sera del sabato (giorno del suicidio, ndr) avevamo appuntamento con coppie di nostri amici per andare a ballare. Ci dovevano venire a prendere alle sette. E le dico anche che lei ora mi vede fisicamente qui, ma io non sono in me, ancora non ho realizzato, metabolizzato, capito. Reagisco e mi faccio forza solo per lei...». Indica la madre novantenne, seduta su una sedia accanto al computer di Luigino, reduce da un intervento di emorragia cerebrale e uscita dall’ospedale Gemelli un mese fa.
Prepara il caffè la signora Lidia a una macchinetta bianca sul piano bar ricavato in un angolo del salone. L’avvocato Carlo Ricci Barbini, il penalista che la assiste in questa battaglia, è andato a trovarla. Per darle sostegno e per metterla al corrente dei passi da muovere nella strategia difensiva. Le consiglia di non parlare di dettagli dell’inchiesta in corso sulla morte del marito «ne parleremo più avanti, quando avremo chiari alcuni punti della vicenda», dice il penalista.
Quante volte siete stati insieme, lei e suo marito, alla Banca Etruria per riavere indietro i vostri soldi?
«Andavamo tutti i giorni. Ma la risposta era sempre la stessa. Impossibile. Anche il lunedì successivo alla morte di Luigino sono stata in quella banca per avere un incontro col direttore e per avere risposte. Non sono stata ricevuta».
Quanti anni avete trascorso insieme lei e Luigino?
«Cinquantuno, siamo insieme da quando io avevo 12 anni e lui 17. Ora ho perso sia lui che tutti i nostri risparmi. Credo possa comprendere come mi sento».
È stata una scelta quella di non avere figli?
«Purtroppo no. Io e mio marito vivevamo l’uno per l’altra, siamo sempre stati una coppia molto affiatata e posso dire di aver vissuto una vita felice con lui al mio fianco. Luigino era il non plus ultra in tutto. Abbiamo viaggiato molto insieme, andavamo a ballare, lui amava lo sport, ho il garage pieno di biciclette da corsa. Mio marito non sapeva suonare invece entrò a far parte della banda del paese. Suonava il trombone, che non aveva mai studiato ma ci si è messo d’impegno e ha imparato. Luigino se si metteva in testa una cosa, preciso com’era, arrivava dove voleva. Vuole che le racconti come è entrato nella banda?».
Sì, racconti.
«Un nostro caro amico era andato in pensione e diceva sempre a Luigino “ma io adesso che faccio?” e Luigino gli rispondeva “vieni con me, in bicicletta, ce ne andiamo in campagna, ce ne andiamo a correre”. Ma l’amico si stancava ad andare in campagna e a correre. Un conoscente gli aveva parlato della banda del paese. Gli aveva suggerito di andare a parlare con la maestra della banda. Così mio marito lo accompagna. Quando torna lo vedo con in mano un trombone. Gli chiedo: “Ma che è quel coso?”. E lui: “Hanno detto che nessuno lo voleva, il trombone, perché è troppo pesante. Allora l’ho preso io”. Così è iniziata la sua avventura musicale nella banda del paese. Era uno che non si tirava indietro di fronte a nulla. Sarebbe stato capace di fare l’astronauta... Poi si è comprato anche il tricorno, dopo il trombone, che adesso sta lì, senza nessuno che lo suoni più».
Lei ha dichiarato che vuole giustizia per suo marito.
«Sì, lo farò. Non sono una donna forte, ma lo farò». Lidia si alza, aspetta degli amici ai quali ha sconsigliato di andarla a trovare nei giorni scorsi «perché la mia casa era presidiata da voi giornalisti». Mostra le foto dei momenti felici trascorsi con Luigino, guarda quella ringhiera maledetta dove, nel punto esatto in cui ha appeso la corda il marito, ora c’è un piccolo santino.