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 2015  dicembre 13 Domenica calendario

Un segnale per chi investe nell’energia: occhio, se mettete i soldi nel posto sbagliato, potreste perderli

Il 2100 e la visione di un pianeta schiacciato da una inarrestabile catastrofe climatica sono, da ieri, un poco più lontani. Il mondo ha, ora, uno strumento per lottare contro l’effetto serra. Non tutte le promesse contenute nell’accordo siglato ieri, fra lo scrosciare di applausi e gli abbracci autocelebrativi, sono convincenti. Ma dalla ventunesima Conferenza sul clima esce un’architettura istituzionale e giuridica che, per la prima volta, unisce tutti i paesi e si pone obiettivi chiari e comuni. E, anche solo per questo, mette in moto un processo che può rivelarsi più solido e potente dell’accordo stesso.
La politica, infatti, è volubile e volatile. L’economia, quando si mette in moto, è una schiacciasassi inarrestabile. Forse per questo, la parola più sentita, in questi giorni, nelle sale della Conferenza sul clima, è stata «segnale». L’hanno usata gli scienziati, ma anche il segretario di Stato americano, John Kerry. Da qui, dicevano, deve uscire un segnale forte e chiaro che, da solo, vale tre o quattro Conferenze sul clima. Quale segnale? Lo spiega, senza giri di parole, Fatih Birol, il direttore della Iea, l’agenzia che si occupa di energia per conto dei paesi ricchi dell’Ocse. «È un segnale per chi investe nell’energia: occhio, se mettete i soldi nel posto sbagliato, potreste perderli». L’energia, infatti, è il terreno cruciale della lotta all’effetto serra: oltre il 60% delle emissioni viene da lì. E, se gli investitori non fiutano il rischio degli impianti tradizionali e inquinanti e non spostano i soldi sulle rinnovabili, c’è il pericolo che si moltiplichino finanche le centrali a carbone.
È partito questo segnale? Sulle prime, si fa fatica a sentirlo. Nella prima bozza di accordo c’era esplicitamente l’ipotesi di un taglio delle emissioni del 40-95 per cento entro il 2050. La clausola è saltata nel testo finale. Ma si chiede esplicitamente di contenere il riscaldamento dentro 1,5-2 gradi. Per arrivarci, spiegano gli scienziati, si deve comunque passare per un taglio drastico delle emissioni. E – sorpresa – lo dice anche, magari un po’ sottovoce, l’accordo di Parigi: oltre il 25 per cento, si deduce dal testo, con l’obiettivo di emissioni zero dopo il 2050. Le parole, anche quando sono timide, pesano. E l’impegno a rendere «i flussi finanziari coerenti con una traiettoria verso basse emissioni» – rimasto intatto fra tutte le revisioni – suona chiaro ad orecchie attente come quelle della grande finanza.
Vedremo presto se banche, assicurazioni, fondi di investimento ne trarranno le conseguenze. A spingerli in questa direzione, c’è una bomba ad orologeria che la Conferenza di Parigi ha messo sotto il tavolo, anche se nei testi di accordo non se ne fa parola. È la creazione, da parte di un organismo internazionale come il Financial Stability Board, presieduto dal governatore della Banca d’Inghilterra, Mark Carney, di una task force sul «riconoscimento dei rischi finanziari legati al clima». Affidata all’ex sindaco di New York, Michael Bloomberg, la task force ha il compito apparentemente innocuo di stabilire gli standard con cui registrare a bilancio, ad esempio, le perdite possibili legate ad un impianto che l’innalzamento dei mari potrebbe sommergere. Rischio serio, ma che scompare, di fronte a quello, gigantesco, che la lotta all’effetto serra comporta per Big Oil e che, per ora, nei suoi bilanci non compare.
Scienziati e tecnici, però, hanno già fatto i conti. Se l’obiettivo dei 2 gradi di massimo riscaldamento verrà perseguito, come promesso a Parigi, i due terzi delle riserve di carbone, gas e petrolio, non possono essere bruciati a produrre CO2, ma devono rimanere sottoterra. La ricchezza di Big Oil, peró, è lì. A fare i conti, a questo punto, sono gli analisti finanziari. Quelli di Kepler Chevreux calcolano che, in un mondo a 2 gradi, svaniscono dai bilanci – corretti con la cura Bloomberg – dei grandi del petrolio attivi per 28 mila miliardi di dollari. È l’annuncio, se non di una bancarotta, di un terremoto nelle Borse, su cui Carney ha già lanciato l’allarme. Quanti azionisti resterebbero con i titoli Exxon o Chevron in mano se le due aziende dovessero registrare questo sgonfiamento a bilancio? Ma non è finita. C’è anche l’uscita di scena dai ruoli di primo piano dell’economia. Mark Lewis, di una grande banca come Barclays, calcola che, nello scenario del mondo che non si riscalda più di 2 gradi, gli investimenti nel settore dei combustibili fossili sono destinati a crollare da 27 mila a poco più di 20 mila miliardi di euro, da qui al 2040. Big Oil scoprirebbe di essere quello che gli operatori di Borsa definiscono “un settore in netta involuzione”. Dove, per giunta – e, per i potenziali investitori, dovrebbe essere il fattore decisivo – si guadagna sempre meno.
In economia, però, i soldi raramente scompaiono. Se non li guadagna uno, li guadagna un altro. Ed è un epocale trasferimento di potere, influenza, denaro, quello che fa intravedere il mondo che si ferma sotto i 2 gradi. Mentre precipitano gli investimenti in combustibili fossili, schizzano verso l’alto, nelle simulazioni della Barclays, quelli nell’energia pulita. Oltre 14 mila miliardi in piu`, convogliati, fra oggi e il 2040, nel settore delle energie a basse emissioni e, in generale, nel comparto dell’efficienza energetica. Bye Bye Big Oil. Hello Big Green.