Corriere della Sera, 13 dicembre 2015
A proposito dell’ultimo, sterminato romanzo di Orhan Pamuk
La boza è un’antica bevanda asiatica tratta dal grano fermentato, leggermente alcolica, densa, profumata e giallognola: una specie di birra che si può bere fredda o a temperatura naturale. Mevlut, il protagonista dell’ultimo, sterminato romanzo del Premio Nobel per la Letteratura Orhan Pamuk, intitolato La stranezza che ho nella testa (Einaudi), è – come lo è stato suo padre, approdato a Istanbul da un remoto villaggio dell’Anatolia – un venditore di boza: un bozac. Col suo giogo di legno, al quale sono appesi i due vassoi sui quali poggiano i bidoni capaci di contenere svariati chili di quel liquido squisito, percorre le strade della città notturna che al suo arrivo lo ha riempito di sgomento e ora ha cominciato ad amare, gridando: «Booza, booza!», senza fermarsi mai.
Ogni tanto, ai piani alti di uno dei palazzi moderni che hanno sostituito le vecchie case di legno, semicadenti (che però ancora si vedono e comunicano il senso prezioso del tempo che non muore) si apre una finestra e viene calato un cestino. Ogni tanto, si ferma un viandante e chiede un bicchiere. Ogni tanto, in case che non temono i venditori ambulanti e gli sconosciuti, e per questo appaiono meravigliose a chi ci entra, il bozaci viene addirittura invitato a salire. Quando scende, e ricomincia a camminare, Mevlut è felice. È vero: a volte, in fondo a un vicolo, gli appare uno strano occhio che lo minaccia o appaiono dei cani che gli ringhiano. Ma il mondo è bello. Sono belli gli esseri umani, così diversi e curiosi. È bella la città, con i palazzi nuovi e le luci, le strade, le piazze, i viali, gli alberi, l’ombra del Topkapi e quella delle moschee. È bello il Bosforo lontano con le grandi navi color latta che si dileguano nella nebbia, i gabbiani, le sirene. È bella la nostalgia. È bello tutto. Per non parlare dei cimiteri: con quelle lapidi inclinate in mezzo ai cipressi nella luce della luna, quella pace misteriosa che fa scomparire le stranezze dalla testa.
Siamo alla fine degli anni Ottanta. A casa, nella baracca simile alle migliaia di altre baracche abusive dei quartieri popolari nei quali vivono i contadini fuggiti dalla miseria e i curdi fuggiti dai villaggi in fiamme, Mevlut (nato nel 1957 a Cennetpinar, in provincia di Konya) ha una moglie che lo aspetta, Rayiha, e due bambine che dormono. Rayiha è la seconda di tre figlie di un vedovo: Abdurahmann Collotorto. Con la complicità di un cugino – dopo averle inviato per tre anni lettere di fuoco nelle quali i suoi occhi oscuri erano paragonati al sole o alla purezza delle sorgenti – Mevlut l’ha rapita dal villaggio vicino nella notte del 17 giugno del 1982. Questi occhi lui li aveva visti per la prima e unica volta quattro anni prima al matrimonio che si era svolto a Istanbul della più grande delle tre sorelle: Vediha. Era stato un istante. Ma se quell’istante nel quale i loro sguardi si erano incrociati era disceso sulla terra, voleva dire che Dio l’aveva voluto. Dunque, le lettere. Dunque, il rapimento. Ma la ragazza che nella notte di tempesta era entrata nella macchina e certamente si chiamava Rayiha, e certamente per tre anni aveva letto quelle lettere, non era quella che lui aveva visto al matrimonio. Rayiha era la sorella di mezzo. Quella che lui aveva visto al matrimonio e aveva gli occhi neri nel volto di bambina era la sorella più piccola: Samiha.
Cos’era successo? Chi aveva ordito l’inganno mettendosi in tal modo di traverso alla volontà divina? E qual era veramente la imperscrutabile volontà divina? Era che l’ingenuo venditore di boza, per tutta la sua vita, dovesse amare Rayiha o Samiha: la sorella che nella notte di tempesta era entrata in macchina e lui non aveva riconosciuto, o quella che aveva visto al matrimonio?
Su questo equivoco – un equivoco che spesso nei romanzi, per esempio in alcuni romanzi di Thomas Hardy, può risultare fatale – Orhan Pamuk ha costruito una straordinaria storia d’amore che abbraccia mezzo secolo, ed è abbastanza incredibile per noi occidentali. Mevlut, infatti, molto presto, si innamora di Rayiha: la ragazza che non ha riconosciuto; la sposa e con lei fa due figlie; insieme condividono la vita; passano vent’anni; riappare, moglie di un vecchio amico di Mevlut, un curdo di nome Ferhat che però a un certo punto del loro matrimonio la trascura per un’altra donna; qualcuno dice a Samiha che le lettere scritte da Mevlut alla sorella erano in realtà per lei e questo scatena nel suo cuore una oscura rabbia; Ferhat e Mevlut aprono insieme una bottega per vendere la boza (finora Mevlut ha venduto boza, pollo e riso cucinato da Rayiha, gelati, è stato cameriere, esattore, disoccupato, posteggiatore) e per questo motivo Samhia e Mevlut si vedono spesso, anche se Mevlut cerca sempre di distogliere gli occhi e non riesce neppure a concepire di non amare sua moglie; anche Rayiha viene a sapere che le lettere di Mevlut non erano per lei, bensì per sua sorella e si tortura dalla gelosia, rimane tuttavia incinta, abortisce da sola e muore; Samiha si riappropria di Mevlut in una serie di incontri indimenticabili (…non fare il vigliacco – gli dice – guardami come mi hai guardato 23 anni fa e dimmelo ad alta voce che quelle lettere erano per me…); passano altri anni; Istanbul è diventata una metropoli; al posto delle baracche sorgono grattacieli e palazzi altissimi; Mevlut e Samhia abitano in un appartamento al primo piano di uno di questi palazzi altissimi; poi, un giorno, in silenzio, Mevlut esce di casa e si carica il giogo coi vassoi e i bidoni sulle spalle.
Siamo alle ultimissime righe de La stranezza che ho nella testa : «Boo-zaa, disse, appena in strada. Mentre camminava verso il Corno d’Oro, percorrendo una strada che si allungava all’infinito, gli si dispiegò davanti il paesaggio che aveva visto dal balcone di Suleyman. Ciò che voleva dire alla città, che voleva scrivere sui muri, gli era appena venuto in mente. Proveniva da dentro di lui, ed era tutto intorno a lui, era una intenzione sia del cuore e che delle labbra: ho amato Rayiha più di ogni altra cosa al mondo – disse Mevlut tra sé e sé».
Su questa storia d’amore – come un secondo giogo sulle spalle di Mevlut – Pamuk ha costruito un secondo romanzo: il romanzo in cui si raccontano Istanbul, la Turchia e la loro storia dalla seconda metà degli anni Cinquanta ai giorni nostri. Il lettore, quindi, conoscerà una infinità di altre famiglie e di altri personaggi simili a quelli che abbiamo appena nominato. Entrerà in una infinità di altre baracche più o meno fatiscenti e in una infinità di altre case estranee o amiche. Entrerà nelle scuole e ascolterà gli studenti che davanti alla statua di Atatürk cantano l’inno nazionale, e nei cinema fumosi in cui i giovani e gli anziani si masturbano guardando i film porno. Assisterà alle dispute e agli scontri fra i nazionalisti e i comunisti e ai colpi di Stato. Avrà l’eco lontana degli avvenimenti che dalla Guerra di Cipro fino alle Due Torri toccano, insieme alla Turchia, il Medio Oriente, e quella vicina delle torture nelle caserme. Scoprirà che in un appartamento ancora molto «coperto» un vecchio pericoloso, insegnante di calligrafia, ammonisce i suoi seguaci a non seguire la voce del cuore ma innanzitutto le prescrizioni e le parole del culto. Vedrà la speculazione edilizia, la volgarità, la corruzione espandersi a macchia d’olio, e, come Mevlut, ne sentirà il peso insopportabile sulle spalle, e magari, penserà che non vale più la pena di vivere in questo mondo buio.
Poi, finalmente, seguirà il venditore di boza verso il Corno d’Oro.