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 2015  dicembre 14 Lunedì calendario

Quattro chiacchiere con Khalid Chaouki, l’unico parlamentare musulmano della Repubblica che ha la moglie con il velo e figli a scuola dalle suore

«La violenza è la malattia dell’islam, l’integrazione è fallita, il buonismo di certa sinistra fa il nostro male e ai musulmani servirebbe un Papa come Francesco».
Scusi, ma lei si chiama Khalid Chaouki?
«Sì, sono proprio io, l’unico parlamentare musulmano della Repubblica, nato a Casablanca, Marocco, 32 anni fa, ma in Italia dal 1992 e nel Pd da prima della sua fondazione. Perché?».
Pensavo d’aver fatto il numero di Salvini…
«Guardi, le appendo il telefono perché non ha capito nulla. I miei non sono slogan, come quelli del vostro amico padano, che strumentalizza la minaccia del terrorismo per raccattare voti. Era ben più aperto Berlusconi, Salvini punta solo alla pancia senza proporre soluzioni e senza conoscere il problema. Mille volte meglio la Le Pen».
La Francia di destra non le fa paura?
«La Le Pen è un avversario politico tosto ma l’idea che tra due anni possa insediarsi all’Eliseo non mi fa paura, perché almeno ha senso della nazione e dal suo punto di vista è credibile. Mi preoccupano di più quello che ha intorno e l’incapacità della sinistra francese, che ha perso ogni identità, di darsi una politica sociale e immigratoria illuminata e abbandonare i luoghi comuni sull’integrazione. Un problema peraltro comune a una parte della nostra sinistra».
Allude alle boldrinate, tipo farsi fotografare con il velo o invitare alla Camera dei filo terroristi?
«La Boldrini è un’amica e non voglio tirarla in mezzo. Alludo al falso senso di colpa che certa sinistra chic prova verso l’immigrato, che in quanto più povero e sfortunato è ritenuto pregiudizialmente dalla parte della ragione e giustificato. Un atteggiamento che offusca il buon senso e deresponsabilizza gli immigrati, che peraltro allo Stato non chiedono buonismo ma rispetto e uguaglianza nel vero senso della parola».
Mi sta dicendo che è fallito il modello d’integrazione proposto da certa sinistra?
«È un problema di tutta la politica europea. Si è preferita la coabitazione alla condivisione di minimi valori comuni. Compra la pace sociale mantenendo milioni di giovani musulmani disoccupati ma non li include e li ghettizza. Poi, quando questi allo sbando si buttano sul terrorismo alla ricerca di una nuova identità, tende a giustificarli o comunque non li criminalizza come dovrebbe. E neppure si apre un dibattito serio su cosa non ha funzionato».
Ma per la coppia assassina della California non vale il solito discorso degi emarginati, guadagnavano 70mila dollari l’anno...
«Perché non è solo una questione economica, c’è anche un problema ideologico legato all’interpretazione violenta del messaggio del Corano, come si diceva».
L’islam andrebbe riformato?
«Andrebbe riformata l’interpretazione del Corano con un concilio islamico che scomunichi la violenza e il terrorismo. Solo che purtroppo siamo ancora lontani da questo».
Ma quanto è grave la minaccia del terrorismo islamico?
«Molto. Il mondo arabo musulmano ha un complesso d’inferiorità verso l’Occidente che si porta dietro dai tempi della sconfitta dell’Impero Ottomano. Sa di aver perso la battaglia con la civiltà occidentale perché qui ci sono una libertà, una ricchezza e un rispetto per l’individuo impensabili nel mondo arabo. Per questo i terroristi sono assetati di vendetta e voglia di riscatto».
È una sete che può placarsi?
«No. I musulmani non si libereranno mai dell’odio verso l’Occidente finché non ci sarà una presa di coscienza che la violenza è purtroppo un cancro insito nella storia dell’islam e come tale va eliminato. Fin dalla morte del profeta si svilupparono interpretazioni del Corano che giustificano ogni genere di violenza in nome della religione anche contro i musulmani non sottomessi a queste logiche. Oggi solo un’infima parte dei musulmani segue queste dottrine sanguinarie ma la reazione debole dell’Occidente alle minacce dei fanatici e il non sostenere abbastanza gli interlocutori islamici moderati rischia di destabilizzare ancora di più il mondo arabo e ingrossare le fila della minoranza pericolosa».
Dovremmo quindi fare la guerra all’Isis?
«Assolutamente sì, con il fondamentale aiuto delle popolazioni locali. Dovremmo continuare a sostenere i curdi e le popolazioni sunnite schierate contro l’Isis e avere il coraggio di darci una priorità e scegliere il male minore: sconfiggere subito l’Isis e poi negoziare una transizione che preveda l’uscita di Assad contro l’Isis. Lo Stato islamico conta sulla nostra arrendevolezza».
Renzi non la pensa come lei…
«In Iraq siamo presenti e facciamo tutto quello che possiamo. Quanto alla Siria, dovremmo intervenire all’interno di un’operazione militare internazionale. Mentre la Libia è stato un disastro e la Francia, che ha scatenato la guerra guardando soprattutto ai propri interessi, ne porta la responsabilità. Ora dovremmo cercare di gestire noi la situazione e non farci superare da acluni “Paesi amici” come avvenuto già in passato».
Il premier la interpella spesso sulla questione islamica? Cosa le chiede?
«Siamo in contatto, mi manda spesso degli sms, quando serve parliamo».
In cosa lo sente presente e in cosa lo vorrebbe più presente?
«È molto risoluto nella gestione dell’emergenza immigrati e nell’affermare che nessuno può essere abbandonato in mare. Vorrei promuovesse la soluzione definitiva dei rapporti tra comunità islamica e Stato italiano. Serve un’intesa, con regole, riconoscimenti, dirirtti e doveri precisi».
Quanto sono reali le minacce al Giubileo e i proclami sulla conquista di Roma?
«Nel Corano c’è un versetto in cui il profeta annuncia che “un giorno prenderemo Roma”. La città eterna è da sempre meta di conquista dell’Islam e ha un valore simbolico unico. La minaccia è reale».
In caso di attentato a Roma si potrà parlare di guerra santa?
«Diciamo che un attentato a Roma cambierebbe radicalmente lo scenario. Ci sarebbe un salto di qualità impressionante, sarebbe un atto bellico, non si potrebbe più parlare di terrorismo. L’espressione guerra santa non mi piace, ma non mi sentirei di negarla in quel caso. Lo stesso Papa ha parlato di una terza guerra mondiale in corso e mi pare chiaro che i combattenti siano l’Occidente e i musulmani pacifici da una parte e l’Isis e il terrorismo religioso dall’altra».
Visti i tempi non è stato poco opportuno indire un Giubileo?
«Quella del Papa è stata anche una sfida al terrorismo e ha fatto bene perché dimostra di non temere nulla. È una dimostrazione di forza e un messaggio di speranza. Da musulmano vi invidio questo Papa, che neppure teme di svelare i lati oscuri della Chiesa, come dimostra affrontando a viso aperto gli scandali di Vatileaks».
Forse avrebbe preferito risparmiarseli...
«Comunque ne uscirà più forte, ha mostrato forza autocritica e capacità di perdono».
Mi perdoni le faccio una domanda alla Severgnini: cos’ha in più il Corano del Vangelo, e viceversa?
«Il Corano non è solo un testo religioso. È un’opera letteraria di immenso valore. Il Vangelo ha una coerenza e una forza del messaggio uniche. E non è un caso che io mandi i miei due figli a scuola dalle suore, dove sono gli unici due allievi di fede musulmana».
Sorprendente. Come mai?
«Adam e Ilias vivono a Roma, che è la culla del cattolicesimo e voglio che condividano i valori fondamentali del loro Paese, l’Italia».
Scuola cattolica, fede musulmana ma nomi ebraici. Non sarà una casualità...
«Non lo è. Spero che questi nomi, che prima sono ebraici e sono nomi per la storia umana, siano di buon auspicio per la loro vita e li aiutino a diventare testimoni di convivenza. I nomi per me sono importanti. Mia moglie si chiama come me, Khalida, che al femminile in arabo è rarissimo. Quando mi si è presentata, è stato un colpo di fulmine».
Lei mi parla di integrazione, ma ha attuato il più classico dei motti del campanilismo italiano, “moglie e buoi dei Paesi tuoi”.
«Vede come mi sono integrato? Comunque quello è un adagio che va forte in tutto il mondo, me lo consigliava anche mia nonna. Comunque è così, anche lei è nata in Marocco e cresciuta in Italia in una famiglia di immigrati, anche se forse per lei è stata un po’ più dura che per me. Sono cinque sorelle e il padre è arrivato qui come vu’ cumprà, poi è diventato meccanico a Rovereto».
E la sua storia famigliare invece?
«Mio padre è un tappezziere, ma ha cambiato tanti lavori. Ha anche aperto un fast food, che però ha chiuso per la crisi. Così si è trasferito con mia madre e i miei due fratelli più piccoli in Belgio, dove vivono altri nostri parenti. Mia madre invece è un’insegnante di lingua araba, è più colta. Con la Tunisia, il Marocco è il Paese islamico che più tutela la condizione della donna».
Sua moglie porta il velo?
«Sì, è l’unica tra le sue sorelle a portarlo. Ma non glielo chiedo io, è una sua libera scelta».
Per noi occidentali il velo è sottomissione, non può essere libera scelta.
«Il velo ormai viene considerato anche come un accessorio chic, alla moda. Non nego sia sottomissione ma è sottomissione a Dio, non al marito, e in questo è libera scelta. Anche il digiuno è sottomissione, anche la preghiera, sono libere scelte di sottomissione fatte per motivi religiosi».
Non credo che tutte le donne velate che vedo lo siano per loro volontà..
«Quando è imposizione e supremazia dell’uomo sulla donna, il velo diventa intollerabile. La condizione di sudditanza della donna è un problema dell’islam, comune a tante altre società».
Per i suoi figli a scuola pretende un menù differenziato?
«È giusto che i musulmani, come gli ebrei, ce l’abbiano. La forza di un Paese e di una civiltà è nella tutela delle minoranze».
E come la mette con il rifiuto di fare il presepe a scuola o con gli islamici che non fanno fare le lezioni di musica ai figli?
«Un conto sono i menù differenziati, giusti perché rispettano le specificità di una fede, un altro le lezioni di musica o i presepi. Il percorso formativo dev’essere unico, perché solo così la scuola pubblica permette l’integrazione. Quindi corsi di musica per tutti e sì al presepe, che è un arricchimento anche per i bambini musulmani. Negarli significa ricadere nel minestrone multiculturista alla base del fallimento della società inglese. Ma che la scuola dovrebbe permettere anche ai bambini cattolici di venire a conoscenza dei fondamenti dell’islam e delle altre religioni praticate dai loro compagni di banco».
A casa sua fa il presepe?
«Non esageriamo. Festeggio Babbo Natale: il 25 a casa mia è un’occasione di festa per i bimbi, lo viviamo in chiave consumistica, con i regali».
Non teme che i suoi figli possano abbracciare un giorno l’estremismo islamico?
«Francamente no. I giovani che si convertono al Jihad sono dei disperati senza valori, che trovano nell’islam estremo la risposta al loro disagio sociale e al loro fallimento personale. In realtà sono la prova della disfatta educativa del modello islamico, smarrito davanti alla modernità. Si dicono islamici ma dell’islam non sanno nulla».
Eppure, da Scruton a Finkielkraut, molti pensatori occidentali rimproverano alla nostra società d’essere molle e priva di valori e di essere destinata a essere schiacciata dall’islam, forte, compatto e motivato.
«Non sono d’accordo. L’islam è in crisi d’identità, dilaniato da una guerra interna feroce. Siccome ha paura di mostrarsi debole si chiude nei dogmi. Questo avviene a livello religioso con gli imam, politico con i leader e famigliare con i padri che distribuiscono precetti e non dialogano».
Mi sta dicendo che il primo problema dell’islam sono gli islamici?
«Così non è detta bene. Il problema delle nuove generazioni di musulmani è la mancanza di esempi positivi. I leader politici e gli imam difendono il loro orticello e non curano gli interessi dei musulmani. Fanno propaganda, alimentano il vittimismo che genera rancore ma non propongono soluzioni. Parlano tanto di politica e poco di valori, sono litigiosi tra di loro e fanno ancora troppo poco per una reale integrazione».
Cosa dovrebbero fare?
«Condannare fermamente il terrorismo, chiedere pene esemplari, spiegare ai giovani che per frustrazione e ignoranza solidarizzano con gli attentatori che l’islam è religione di pace e misericordia e che le minoranze sanguinarie vanno combattute. E poi chiedere allo Stato italiano un’intesa, lavorando insieme per un riconoscimento della presenza islamica in Italia. Con norme chiare riguardo la trasparenza nella gestione delle moschee e la formazione di imam certificati. Insomma, un islam perfettamente integrato nel sistema legale del nostro Paese».
Perché ha lasciato i Giovani Musulmani?
«Perché mi ci sentivo stretto. Erano appiattiti sulla dimensione religiosa e subivano inquietanti influenze da parte dell’estremismo. Non vede male chi insinua che Isis e terrorismo siano insufflati dai dittatori più spietati e dagli sceicchi, che puntando l’indice contro il demone occidentale mantengono le masse islamiche nella schiavitù e perpetuano i loro privilegi, impedendo un’evoluzione sociale, economica e dei diritti».
Per lei è più importante essere un buon italiano o un buon musulmano?
«Da buon musulmano non posso che essere un ottimo cittadino italiano».
L’Italia è un Paese razzista?
«Da dieci giorni giro con la scorta a causa delle minacce dell’estrema destra ma non penso che l’Italia sia razzista. Lo sono però alcuni italiani, spalleggati da noti movimenti politici».
Un rapporto del Centro Studi Strategici la mette tra gli estremisti islamici pericolosi...
«Una vicenda assurda, per la quale ho ricevuto la solidarietà del ministro competente, la Pinotti. È tutto dovuto alla mia presenza in una videoclip di un rapper egiziano che inneggiava alla violenza. Interpretavo un preside severo».
Non è un cameo edificante. Se n’è pentito?
«È stata una leggerezza. I toni di quel video non sono i miei, la mia storia parla per me. E poi quel rapper non è un terrorista bensì un artista pluripremiato. Comunque, la mia è stata una testimonianza, non bisogna fare gli struzzi e negare una realtà che c’è».