Il Messaggero, 14 dicembre 2015
Dovremo far sparire 7 miliardi di tonnellate di Co2 dall’atmosfera entro la fine del secolo. La sfida di 195 paesi lanciata a Parigi
Stringiamo la cinghia e allacciamo le cinture: il mondo sta per affrontare dopo la conferenza sul clima di Parigi la più ambiziosa dieta di energia che sia mai stata concepita. Non sappiamo ancora se riusciremo a rispettarla ne se ci darà i risultati auspicati; sappiamo invece che nella migliore delle ipotesi sarà dolorosa, costosa e controversa.
A Parigi i rappresentanti di 195 paesi si sono impegnati a mantenere per la fine del secolo il surriscaldamento del pianeta entro il limite dei due gradi dall’inizio della rivoluzione industriale, anzi si è detto che la soglia è troppo vicina al baratro del disastro ambientale, quindi sarà meglio contenerla entro un grado e mezzo. È questo un traguardo ambizioso, e infatti fino ad oggi era stato avversato da molti dei partecipanti; essere riusciti a concordarlo è forse il migliore risultato della conferenza. Negli ultimi 150 anni un intero grado di temperatura è già stato aggiunto alla media globale; invertire la marcia in piena corsa, con un numero sempre più grande di paesi in piena crescita economica, e che quindi producono e consumano più energia, sarà molto difficile. Il presidente americano Barack Obama, che è stato la forza trainante dietro il summit parigino, ha ottenuto il consenso dopo aver accettato di cancellare dall’accordo i vincoli legali che avrebbero obbligato i firmatari alla sua realizzazione, e che avrebbero costretto ad una verifica parlamentare destinata almeno negli Usa al fallimento. L’obbligo è stato sostituito da autocertificazione da parte di ogni stato, con una verifica quinquennale dei traguardi raggiunti e dei piani per il futuro. Più che un accordo vincolante, la carta di Parigi è quindi una presa di coscienza collettiva, la prima in 25 anni di dibattito. C’è solo da augurarsi che questo ritardo non ci sarà fatale.
OBIETTIVIDovremo far sparire 7 miliardi di tonnellate dell’anidride carbonica che oggi emettiamo nell’atmosfera per arrivare ad un punto di equilibrio del sistema terrestre, nel quale l’uomo smetterà di contribuire all’effetto serra. Dobbiamo farlo entro il 2050 per contenere il surriscaldamento a 1,5 gradi, o il 2070, se potremo permetterci due gradi di calore aggiunto. Per arrivare alla meta possiamo sperare in un miracolo, come l’improvviso arresto del disboscamento globale (gli alberi assorbono l’anidride, ma l’uomo ha sempre più bisogno di terra coltivabile per sfamare la popolazione che cresce). Forse riusciremo a produrre micro-alghe ad alto contenuto ferroso che arrestino l’acidificazione degli oceani, oppure a costruire giganteschi specchi spaziali che deflettano parte dei raggi solari che colpiscono la Terra.
«Nella migliore delle ipotesi queste conquiste tecnologiche ci permetterebbero di risolvere il 10% del problema» ha commentato dopo la firma dell’accordo Kevin Anderson, vice direttore del britannico Tyndall Center per la ricerca sul clima. Al momento il metodo più sicuro, efficace e doloroso per indirizzare il restante 90% è la riduzione delle emissioni. Spegnere la luce, rallentare la crescita. La grande novità dopo Parigi è che Cina e India per la prima volta hanno accettato l’idea di dover essere parte della soluzione, dopo aver preteso per due decenni di essere esentate da qualsiasi misura restrittiva. Le loro economie sono cresciute al punto in cui inquinamento e surriscaldamento sono percepiti come un problema maggiore rispetto a quello della povertà. Ma la crescita dei due paesi asiatici, così come la ripresa dell’economia americana dopo la crisi del 2008, è stata ottenuta con un enorme utilizzo delle risorse fossili, che sono la prima fonte di emissioni dei gas serra. Mentre a Parigi si discuteva di come ridurre il consumo di petrolio e l’attività delle centrali a carbone, i paesi produttori di greggio nel Golfo Persico come a Washington deciso di abolire ogni tetto ai volumi delle estrazioni, anche di fronte ad una caduta dei prezzi senza precedenti negli ultimi quindici anni.
Consumare meno energia fossile vuol dire fermare le macchine o investire sulle fonti rinnovabili, due misure che alle orecchie dei governanti suonano come una perdita di profitto o un aumento della spesa, entrambi impopolari nelle cabine elettorali. E per i paesi meno ricchi queste scelte sono ancora più onerose. Per questo avevano chiesto di rendere vincolante il finanziamento del fondo da 100 miliardi di dollari che li aiutasse nel passaggio. Un fondo già approvato nel 2009 a Copenaghen, che in sei anni ha raccolto appena 4 miliardi, e che nel testo di Parigi è finito nel preambolo senza poi tradursi in disposizioni attuative. Un fondo che rischia di restare una dichiarazione di intenti, così come potrebbe accadere alla lotta contro la catastrofe climatica.