Libero, 14 dicembre 2015
Cosa fare con l’Arabia Saudita?
«L’Arabia Saudita è un Isis che ce l’ha fatta», ha scritto Kamel Daoud, uno scrittore e giornalista algerino, in un discusso editoriale pubblicato sul New York Times lo scorso 20 novembre. Secondo Daoud, in nome di petrolio e investimenti miliardari, l’occidente ha a lungo ignorato che la monarchia a governo nel Paese è strettamente alleata con un vero e proprio «complesso industriale-religioso»: un brodo di coltura che alimenta in tutto il mondo movimenti fondamentalisti come Isis e al Qaeda.
I finanziamenti diretti ai gruppi estremisti non sono così significativi, soprattutto negli ultimi anni, ma l’Arabia Saudita è probabilmente uno dei Paesi che più contribuiscono a creare il brodo di coltura ideologico che genera il radicalismo religioso. Nel Paese si pratica una versione fondamentalista ed estrema dell’Islam, il «wahabismo», una corrente nata nella Penisola arabica nel Settecento e legata a doppio filo con la dinastia regnante, gli al Saud.
Il clero saudita non si limita a imporre questa credenza nel Paese, ma spende ogni anno centinaia di milioni di dollari per diffonderla in tutto il mondo. Negli ultimi tre decenni, scuole e moschee wahabite sono state costruite in tutto il mondo e fondazioni religiose hanno sponsorizzato migliaia di borse di studio per portare giovani musulmani a studiare la versione saudita dell’islam radicale. Questi fondi sono spesso finiti nelle casse di gruppi religiosi armati, a volte illegalmente, a volte con il consenso del governo saudita.
Il caso più famoso è quello della regione al confine tra Pakistan e Afghanistan, dove, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, fondazioni religiose e governo pagarono la costruzione di centinaia di scuole coraniche, moschee, strade e ospedali. In quegli stessi anni, Cia e servizi segreti sauditi finanziarono i più conservatori ed estremisti tra i ribelli che in quegli anni combattevano le forze di occupazione dell’Unione Sovietica in Afghanistan. Il più famoso di questi gruppi era quello dei Talebani, che dominarono l’Afghanistan fino al 2001 e ancora oggi combattono contro il governo afghano e le truppe americane. Dagli attentati di Parigi dello scorso 13 novembre, le critiche contro questa situazione si sono moltiplicate. Il complesso «industriale-religioso» e gli oscuri canali di finanziamento che partono dall’Arabia Saudita e arrivano alle tasche dei gruppi fondamentalisti sono stati denunciati in decine di articoli sui principali giornali del mondo. E le critiche cominciano a non essere più limitate solo alla stampa. «L’Arabia Saudita costruisce moschee fondamentaliste in tutto il mondo», ha detto pochi giorni fa il vice-cancelliere tedesco, Sigmar Gabriel: «Deve essere chiaro che il tempo in cui guardavamo da un’altra parte è oramai passato».
Ma perché fino ad oggi tutti hanno guardato dall’altra parte? Una delle ragioni è il petrolio di cui l’Arabia Saudita possiede la più grande riserva mondiale e che rende il paese un alleato chiave per Stati Uniti e per buona parte d’Europa.
Come ha spiegato in un’intervista James Baker, segretario di Stato durante la presidenza di George W. Bush: «Se accettiamo la premessa che il nostro Paese ha bisogno di avere accesso alle riserve energetiche del Golfo Persico, allora non vedo come potremmo pensare di smettere di appoggiare il governo dell’Arabia Saudita che ci garantisce quest’accesso».
Fortunatamente, direbbe qualcuno, oggi questo «accesso» è molto meno importante che in passato. Il boom dello «shale oil» ha reso gli Stati Uniti energeticamente quasi autosufficienti. L’Arabia Saudita ha risposto inondando il mercato di petrolio a basso prezzo, nel tentativo di espellere dal mercato lo shale oil, che è molto costoso da estrarre. Ma i produttori americani hanno stretto la cinghia e fino ad oggi sono riusciti a sopravvivere, mentre l’Arabia Saudita si è ritrovata con un gigantesco buco nei conti pubblici: per avere un bilancio in pari ha bisogno di un prezzo del petrolio di circa 100 dollari al barile, mentre oggi il prezzo è fermo intorno a 40 dollari.
Ma non c’è soltanto il petrolio a tenere uniti occidente a Arabia Saudita. Tutti i paesi del Golfo investono ogni anno centinaia di milioni di dollari negli Stati Uniti e in Europa. Acquistano soprattutto armi, permettendo ai Paesi occidentali di tenere occupate migliaia di persone nell’industria bellica.
Investono anche in immobili, squadre di calcio e compagnia aeree, come ci ricorda il caso Alitalia, salvata dall’investimento di Etihad, la compagnia di bandiera degli Emirati Arabi Uniti, un paese strettamente alleato dell’Arabia Saudita. Oggi, mentre in Europa è in corso una timida ripresa economica e i governi fanno salti mortali per ottenere uno 0,1 per cento di crescita in più, gli investimenti del Golfo sono particolarmente desiderabili.
Forniture energetiche e investimenti sono strumenti di politica estera pubblica di cui chiunque può giudicare pro e contro. A volte però, l’influenza dell’Arabia Saudita e degli altri paesi del Golfo si manifesta in maniera meno trasparente. Ad esempio, è accaduto in più di un caso che funzionari o politici europei e americani, terminato il loro mandato, abbiano fatto affari in Arabia Saudita oppure accettato lavori riccamente stipendiati dal suo governo o da quelli dei suoi alleati. Il caso più recente è quello di Bernardino León, l’inviato dell’Onu incaricato di mediare una pace in Libia. Mentre era ancora in carica, León accettò di andare a lavorare per gli Emirati Arabi Uniti con uno stipendio di 50 mila euro al mese, non appena il suo mandato fosse scaduto. Una serie di mail, pubblicate da diversi giornali lo scorso novembre, dimostrò che León aveva condotto le trattative tra le parti in conflitto in modo da favorire platealmente gli interessi degli Emirati Arabi Uniti.
Anche se in molti dicono che non è più il momento di girarsi dall’altra parte, più si guarda il problema saudita, più sembra difficile individuare una soluzione. La famiglia reale deve buona parte del suo potere all’appoggio che garantisce al clero wahabita. Re Abdullah, morto lo scorso gennaio, ha cercato, con un certo successo, di limitare l’influenza del clero. I servizi segreti dell’Arabia Saudita lavorano spesso insieme a quelli occidentali e hanno contribuito a sventare più di un attentato. Ma collaborare troppo con gli occidentali o riformare il Paese troppo in fretta, significa per gli al Saud tagliare il ramo su cui sono seduti.
Non solo i più radicali tra i religiosi sauditi godono di molto seguito tra la popolazione, ma Isis e al Qaeda sono già presenti nel Paese e hanno dichiarato che rovesciare il governo è uno dei loro principali obbiettivi. Per quanto l’Arabia Saudita sia una fonte di instabilità, è probabile che se si trasformasse in una nuova Siria diventerebbe per il resto del mondo un problema ancora più grave. Come ha detto un diplomatico britannico: «Liberatevi degli al Saud e nel giro di sei mesi pregherete che ritornino al potere».