il Giornale, 14 dicembre 2015
I segreti della memoria
Si dice che nel Cinquecento Giulio Camillo, detto Delminio, avesse costruito un teatro in legno, in cui ogni fila e gradinata era contrassegnata con lettere e numeri per disporre, con ordine, tutto il sapere umano. Lo chiamò il Teatro della Memoria e, dice la leggenda, fu venduto a Francesco I, re di Francia, per addestrarvi le sue spie. In questa storia c’è molto dell’ideale rinascimentale di uno scibile umano totale, e c’è l’influsso delle mnemotecniche che associano, per esempio, eventi e concetti a immagini e numeri, o momenti del discorso a «luoghi», come lungo un percorso della mente. Quelle tecniche che hanno reso celebre un contemporaneo di Delminio, Pico della Mirandola con la sua memoria prodigiosa. Del resto la memoria è un prodigio, a modo suo: fin da quando vivevamo nella giungla, ci ha consentito di sviluppare tecniche e apprendere dall’esperienza, di ricordare dove si trova il fiume, la grotta, i luoghi dove trovare cibo e quelli da evitare. Come dice John Medina, «la memoria costituisce un grande vantaggio per la sopravvivenza». E però lo stesso scienziato americano, nel suo libro Il cervello. Istruzioni per l’uso (Bollati Boringhieri) aggiunge che la memoria è ciò che «ci rende effettivamente coscienti e consapevoli», per esempio facendoci ricordare i volti e i nomi delle persone e le nostre predilezioni. Ed è il fondamento di quelle capacità tipicamente umane che sono parlare e scrivere. Insomma «sembra che la memoria non ci abbia solo resi durevoli nel tempo, ma anche umani».
REGISTRATORI, NO GRAZIE
Quando si parla di memoria bisogna distinguere fra quella a breve termine, o «memoria di lavoro», destinata a evaporare in fretta e quella «a lungo termine», dove sono sedimentate le nostre conoscenze grazie a un processo molto lungo, «anche di anni» spiega Medina. Dobbiamo farcene una ragione: la dimenticanza è connaturata alla memorizzazione stessa ed è altrettanto necessaria. Se ricordassimo tutto, non saremmo in grado di vivere: saremmo solo dei registratori. A parte qualche eccezione neurologica, la maggior parte non corre questi rischi. Anzi, il problema è proprio rinforzare la nostra memoria, che sembra sempre più assottigliarsi. Succede per due motivi. Il primo è che sono in parte cambiati i metodi di insegnamento e si è perso molto di ciò che veniva definito «nozionismo», come spiega Paolo Legrenzi, professore emerito di Psicologia a Venezia: capacità di calcolare, sia che riguardi semplici operazioni sia, per esempio, i logaritmi o i derivati che servono in finanza; sintassi e grammatica, che ormai sono affidate al correttore automatico; le date storiche («Ora basta guardare su Google...»). In parallelo – e questo è il secondo motivo – abbiamo «delegato» sempre di più le nostre capacità alle macchine, pc e smartphone, che sono diventate la nostra «memoria esterna», tanto artificiale quanto efficiente. Non è che la memoria naturale sia andata del tutto perduta, però – nota Legrenzi – la mente «è naturalmente pigra», quindi tendiamo a fare il minimo sforzo: il risultato è che «inconsapevolmente impariamo subito a non dover ricordare quello che abbiamo nella nostra agenda elettronica». Così «deleghiamo a una macchina quei collegamenti che la mente deve fare per costruire la memoria», quindi non è che non abbiamo più le informazioni (le abbiamo sul pc o sul cellulare) ma, «di fatto, le abbiamo perse» (dalla nostra mente); e, alla fine, «pensiamo di meno: col computer in tasca perdiamo delle capacità di ragionamento, perché le affidiamo a un segretario molto zelante...».È per questo che il suo ultimo libro è dedicato a La buona logica. Imparare a pensare (Raffaello Cortina Editore): perché per la mente, come per la memoria, servono delle «strategie», dei modelli di soluzioni dei problemi (per la prima) o di rafforzamento (per la seconda) che, una volta appresi, servono in qualunque situazione. Perché il computer si può rompere: e allora che cosa facciamo? L’importante è capire un punto chiave: la memoria è «come una libreria, e il problema vero è se sia ordinata oppure no». E «molte informazioni noi le abbiamo immagazzinate, ma non riusciamo a recuperarle». La memoria quindi non può essere «aumentata nello spazio», ma si può «allenare, creando dei legami tra ciò che abbiamo stivato nella nostra memoria naturale»; legami che ci consentono, al momento giusto, di «recuperare» quelle informazioni.
I FALSI MITI
Come si creano questi legami? Tramite delle tecniche, e tramite la ripetizione, per esempio. Sostiene Roberto Vacca, ingegnere e scrittore, che «la predisposizione non serve»: lui a 88 anni ha pubblicato un libro, Come imparare una cosa al giorno e non invecchiare mai (Mondadori), parla sette lingue, tiene discorsi pubblici senza mai perdere il filo («una volta, circa a metà, una signora svenne e dovemmo interrompere per una ventina di minuti; ma io ripresi tranquillamente, sapevo che ero fermo all’argomento numero dodici, e proseguii dal tredici al venti») e senza nemmeno utilizzare appunti, che non gli servono neanche sul lavoro. Se l’età non aiuta la memoria (che ha «un calo fisiologico già dopo i 50 anni», spiega Legrenzi), nel caso di Vacca anche i giovani avrebbero molto da imparare. E si può, visto che secondo lui servono soltanto «fatica, persistenza e tempo», per imparare «qualche piccola tecnica». Siccome una pillola per la memoria non esiste, bisogna allenarla per mantenerla in forma, come il nostro corpo. Tanto è vero che Vacca propone, per le persone più anziane e che mostrino già qualche segno premonitore dell’Alzheimer, delle «palestre mentali», sulla scia di quanto già avviene in America e quanto fatto, in Italia, al Cnr di Pisa da Lamberto Maffei: luoghi in cui gli anziani, seguiti da medici, psicologici, logopedisti e psicoterapisti fanno esercizi, man mano sempre più complessi, per «risvegliare le capacità cognitive».
FITNESS E NEURONI
Uno dei punti su cui gli studiosi concordano è l’importanza dell’esercizio fisico: chi lo pratica regolarmente «ottiene prestazioni migliori nella memoria a lungo termine, nel ragionamento, nell’attenzione e nei compiti connessi alla risoluzione di problemi» dice Medina. Del resto i nostri antenati percorrevano, in media dai dieci ai venti chilometri al giorno: il nostro cervello si è sviluppato in movimento, e non seduti a una scrivania. E gli ultimi studi mettono in relazione memoria scarsa e sovrappeso. Perciò Medina propone, per esempio, sul lavoro e a scuola intervalli costanti, per riposare e sgranchirsi le gambe; o, meglio ancora, dei tapis roulant, per consentire a studenti e dipendenti di fare esercizio fisico durante la giornata e poi riprendere, più attivi in tutti i sensi. Il movimento va di pari passo col riposo: dormire fa altrettanto bene alla memoria tanto che, secondo gli ultimi studi, un riposino (o il sonno) subito dopo lo studio potrebbe migliorarla fino a cinque volte.Un altro fattore fondamentale è la ripetizione che – spiega Medina – deve avvenire a intervalli costanti (non «ammassata»): e questo dovrebbe servire anche nella organizzazione delle lezioni scolastiche, dove non basta spiegare un concetto una volta ma andrebbe ripreso, più e più volte, nei giorni successivi, fino all’apprendimento e alla memorizzazione complete; così come sul lavoro, dove Medina propone «la organizzazione di corsi di formazione a intervalli costanti, per i neoassunti ma anche per i veterani», che possono così scoprire quante cose avessero ormai dimenticato. Un ultimo dettaglio, fondamentale: è più facile ricordare se l’informazione è «elaborata, significativa e collocata in un contesto», per esempio se è «dettagliata, sfaccettata, intrisa di emozioni» e se può essere «associata a un’informazione già presente nel cervello». Perciò è tanto importante l’incipit di una lezione o di una conferenza ed è utilissimo fare (o farsi) degli esempi e cercare di collocare le informazioni in scenari familiari o, ancora meglio, riprodurre l’ambiente in cui è stata registrata l’informazione.