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 2015  dicembre 14 Lunedì calendario

Quarant’anni fa uscì “Born to run” di Bruce Springsteen. E il rock non fu più lo stesso

Sul finire dei Settanta, Bruce Springsteen produceva a getto continuo. Tanto, tantissimo. Pure troppo. La E Street Band, durante le registrazioni di The River, quasi non ne poteva più: ogni giorno un brano nuovo, a volte persino due. Springsteen era mosso da un demone che lo rendeva incredibilmente, e strepitosamente, prolifico.
Si deve a quella esplosione di creatività la mole di brani inediti che, dal cofanetto Tracks di 17 anni fa a oggi, inondano piacevolmente i milioni di estimatori dell’artista. C’era stata l’appendice della raccolta The Essential Bruce Springsteen, e poi nel 2010 il cofanetto di Darkness on The Edge of Town (1978) con il doppio The Promise, che conteneva outtake che chiunque altro non solo non avrebbe “scartato” dal disco definitivo ma avrebbe pure usato come singoli. Singoli forti.
Ora tocca a The Ties That Bind, cofanetto celebrativo di The River. (1980). È perfetto come regalo di Natale, a patto però che il destinatario meriti una gemma così sfaccettata. Quattro cd, 52 brani e tre dvd con oltre quattro ore di immagini inedite. Se – come scrivono i professionisti del mugugno – Bruce Springsteen sta “raschiando il barile”, è quantomeno assodato che un barile così bello (e così capiente) non lo si vedeva da tempo.
Perché, soprattutto nel biennio 1979-80, Springsteen scriveva così tanto e quasi sempre bene? Fu come un rompersi delle dighe: un aprire definitivamente i rubinetti della continua epifania artistica. Un po’ come George Harrison, che una volta uscito dai Beatles si liberò di ogni costrizione e regalò (a se stesso anzitutto) All Things Must Pass.
Quella di Springsteen è una meraviglia quasi inspiegabile e non certo eterna, in qualche modo conclusa – e sublimata – dal minimalismo indimenticabile di Nebraska, opera che strazia ieri come oggi, incisa di getto e spartanamente, con la sedia che scricchiola e un’armonica che scava dentro, tra il Johnny 99 condannato a morte e l’urlo che chiude l’indelebile State Trooper.
Evidentemente, dopo una seconda metà dei Settanta così fiammeggiante e prima di consegnarsi (pure troppo in certi casi) all’edonismo appiccicoso degli Ottanta, Springsteen avvertì il bisogno di quella cerniera acustica così povera. E così perfetta.
Prima di Nebraska (1982), e anche prima di Darkness e The River, c’era stato il disco del cambio di passo: “la linea di demarcazione”, per dirla con Springsteen. Quella demarcazione si chiama Born To Run e ad agosto ha compiuto 40 anni. La casa in cui fu scritto, recentemente, è stata messa all’asta. Bruce aveva 26 anni e il fiato corto. I suoi primi dischi, Greetings From Asbury Park e The Wild The Innocent and The E Street Shuffle, erano piaciuti a qualche critico ma non avevano venduto quanto la Columbia avrebbe voluto. Capolinea: non ci sarebbe stato un quarto album, non con la stessa casa discografica almeno.
Era l’estate del ’74. Springsteen l’ha raccontata così nel libro Songs: “Quell’estate acquistai il mio primo ‘treno su gomme’ per duemila dollari. Si trattava di una Chevy del ’57, aveva carburatori doppi a quattro cilindri e fiamme arancioni dipinte sul cofano. Vivevo in una piccola casa a West Long Branch. Tenevo un registratore accanto al letto. Alla notte mi coricavo dopo aver messo su dischi di Roy Orbison, dei Ronettes, dei Beach Boys. All’inizio non avevo colto la profondità di quegli album, ora cominciavo ad apprezzarne la carica artistica”.
Lo Springsteen di quell’estate deve liberarsi dei maestri, dei retaggi di Dylan, delle certezze adolescenziali. Deve trovare la sua strada: la sua poetica. Nulla sembra andare come vorrebbe. Si scontra con il primo manager Mike Appel, vede andarsene il pianista David Sancious, licenzia il batterista Vinnie Lopez (“Mad Dog”). Dopo molte audizioni, i due musicisti verranno sostituiti da Roy Bittan e Max Weimberg.
Come ha raccontato anche Chiara Di Clemente in un prezioso articolo su QN, Born to run nacque nell’America post-Vietnam e la sola title track richiese sei mesi di stesura e limatura. “Un giorno suonavo la chitarra seduto sul letto lavorando su alcune idee per future canzoni, quando mi vennero alla mente le parole Born to run. Nato per correre.
All’inizio pensai si trattasse del titolo di un film o di una qualche scritta che avevo letto su una macchina che sfrecciava lungo il ‘Circuit’, ma non ero sicuro. La frase mi piacque perché mi fece pensare a una sceneggiatura cinematografica e mi sembrava si sarebbe adattata bene alla musica che avevo in testa (..) Lentamente, la paura che ero riuscito a tenere lontano da Rosalita riuscì ad aprirsi un varco nella vita delle persone di Born to run. I temi fondamentali che avrei approfondito in seguito presero forma nelle canzoni inserite nel disco. Quello fu l’album in cui superai le mie concezioni adolescenziali dell’amore e della libertà”.
Jon Landau, quello che su Rolling Stone aveva scritto di aver visto il futuro del rock e quel futuro aveva il nome di Bruce, impose il cambio di studio di registrazione e di fatto sostituì Appel come manager. Una bella mossa, verosimilmente decisiva. Springsteen fece tesoro dell’insegnamento di Phil Spector e del suo “Muro del suono”, rileggendolo però a modo suo. I brani scelti per la tracklist furono otto, per quasi 40 minuti senza cali e sbavature. Ieri come oggi. Da Thunder Road a Tenth Avenue Freeze Out, da She’s The One a Jungleland.
Time e Newsweek eternarono Springsteen, fu apoteosi e la Columbia non pensò più a rescindere il contratto. Tutto merito di quel disco. Di quell’esser nati per correre. E di quella copertina, con Bruce che ha la Fender Stratocaster del ’53 al collo e si appoggia al monumentale Clarence Clemmons. Il suo grande amico. Che non c’è più. Ma c’è: eccome se c’è.