il Fatto Quotidiano, 14 dicembre 2015
Il caso Piccolomo, il killer delle mani mozzate
Giuseppe Piccolomo non ha ucciso la prima moglie, Marisa Maldera. Per la Procura di Varese non ci sono prove che il cosiddetto “killer delle mani mozzate” abbia avuto un ruolo nell’incidente in cui è bruciata viva. Con la richiesta di archiviazione, partita dal pm Luca Petrucci, non cala, però, il sipario sul lato oscuro di quest’uomo. Giuseppe sta scontando l’ergastolo per l’omicidio della tipografa Carla Molinari ed è stato associato anche a un terzo delitto, quello della studentessa Lidia Macchi.
E se il suo profilo da “uomo nero” vi sembra uscito da una serie tv a base di assassini seriali (Criminal Minds o Csi, per intenderci) siete nel giusto. Lo storytelling noir-poliziesco, di cui Piccolomo è sempre stato un grande fan, ha avuto un ruolo non da poco in questa storia.
Per capire come e perché iniziamo con un flashback. Febbraio 2003: Marisa Maldera ha un incidente d’auto con il marito. Giuseppe, che è al volante, ne esce illeso. Marisa, imprigionata nell’abitacolo, muore carbonizzata, forse mentre è ancora cosciente.
Piccolomo patteggia una condanna per omicidio colposo, ma la morte di Marisa suscita dubbi e sospetti. Secondo le figlie della coppia, Piccolomo considerava la consorte un ostacolo alla sua relazione con un’altra. Una ragazza che è diventata sua moglie solo due mesi dopo la morte di Marisa e gli ha dato un figlio. Una sposa più giovane che lo ha lasciato per tornare nel paese natale, il Marocco, dopo che è stato condannato per l’assassinio di Carla Molinari. Chi è? Facciamo un salto in avanti di sei anni, fino al 2009.
Carla Molinari, ex tipografa 83enne, vive a Cocquio Trevisago, Varese. Un uomo s’introduce nella sua abitazione con l’intento di rapinarla e l’accoltella a morte. L’anziana signora, però, si difende, graffiando il viso del suo aggressore. Il ladro, consapevole che sotto le unghie della vittima c’è il suo dna, le sega le mani, per poi distruggerle. Come gli è venuta in mente una soluzione tanto efferata quanto efficace? La risposta sta in una sola parola: la televisione.
Nell’abitazione della vittima viene ritrovato un mucchietto di mozziconi di sigaretta. Esaminati per trovare il dna del killer danno un risultato paradossale: ogni traccia appartiene a un profilo genetico diverso. Un buco nell’acqua e un mistero nel mistero, finché non arriva una telefonata in procura. Una donna, che ha letto dei mozziconi sul giornale, si è ricordata di aver visto al centro commerciale una persona che “rubava” le cicche da un posacenere.
In provincia basta poco per arrivare a Piccolomo. In casa sua viene trovato il coltello con il sangue di Carla. Le videocamere del centro commerciale lo hanno ripreso mentre portava via i mozziconi. Un trucco che Piccolomo ha copiato da una puntata di Criminal Minds, finendo per provare la premeditazione del delitto. Ha portato i mozziconi per sviare le indagini. Quando ha tagliato le mani a Carla, invece, ha improvvisato, ispirandosi a un episodio di un’altra serie del suo cuore, Csi.
Giuseppe Piccolomo è entrato in carcere a 59 anni proclamando la sua innocenza. Nel processo che lo ha condannato al carcere a vita (sentenza ormai definitiva) la testimonianza delle sue figlie, Nunziatina e Filomena, è stata cruciale. Hanno parlato degli abusi subiti dal padre e delle ripetute violenze alla madre. Sono state loro a far riaprire il caso di Marisa Maldera.
La richiesta di archiviazione non le ha scoraggiate. Il loro avvocato cercherà di evitare la chiusura delle indagini. Nel sangue di Marisa è stato trovato il principio attivo del Tavor, un medicinale che non le era mai stato prescritto e che nessuno le ha mai visto assumere. Un dato che potrebbe spiegare perché non è riuscita a uscire dall’automobile in fiamme. La fine di questo secondo giallo legato a Piccolomo è, dunque, rinviata, mentre si avvia all’epilogo il terzo, l’omicidio di Lidia Macchi.
Lidia è stata violentata e uccisa con 29 coltellate nel 1987, sempre a Varese. Ai suoi genitori è stata inviata una lettera anonima in cui si descriveva, tra citazioni e frasi in latino, l’omicidio della ragazza. Nel 2014 le indagini sulla sua morte si sono concentrate su Piccolomo. Nunziatina e Filomena hanno raccontato che da ragazzine le terrorizzava dicendo di aver ucciso Lidia, che viveva a poca distanza da loro.
All’epoca del delitto quattro testimoni rivelarono di essere state molestate da un uomo nella stessa zona. Il loro identikit, ripescato dagli archivi, è molto somigliante a Piccolomo.
L’inchiesta sulla morte di Lidia Macchi fu una delle prime in Italia in cui venne repertato il dna. Sangue, sul bavero della giacca della giovane. Peli, nella macchina di Lidia, saliva sulla missiva ai genitori. Enzo Tortora nel corso della trasmissione Giallo lanciò persino un appello a sottoporre al test genetico tutta Varese. Un’idea balzana, allora, ma non oggi, nell’era di Ignoto 1 e del caso Gambirasio.
Invece a oltre trent’anni di distanza, lo scorso agosto, quel dna ha “scagionato” Piccolomo. Non è stato lui a “leccare” la busta né a macchiare Lidia del suo sangue. I peli sono del cane della Macchi e di persone del suo gruppo familiare. L’unico avulso non è riconducibile al sospettato. L’indagine, ciononostante, non è ufficialmente chiusa. Come nei telefilm preferito dal killer delle mani mozzate potrebbe arrivare un colpo di scena.