la Repubblica, 14 dicembre 2015
Salman Rushdie e la fortuna di aver ricevuto una fatwa venticinque anni fa
Rushdie, 68anni, da quasi tre mesi è in giro per il mondo a presentare il suo ultimo libro. Si muove senza scorta né guardie del corpo. Nel febbraio 1989, a seguito della pubblicazione del romanzo “I versetti satanici”, l‘Ajatollah Khomeini lanciò una fatwa contro Rushdie, condannandolo a morte per blasfemia. Khomeini è morto ma esistono ancora forze islamiste che minacciano la vita di Rushdie. Da sedici anni lo scrittore esce senza scorta, si muove liberamente e vive a New York. Il suo nuovo romanzo (pubblicato in Italia da Mondadori) “Due anni, otto mesi e ventotto notti (in tutto mille e una notte) è una superfiaba intergalattica che narra della guerra tra il mondo della fede e
quello della ragione, ed è improntata a un enorme ottimismo e a un divertito sarcasmo. Nel corso dell’intervista, nel suo hotel di Berlino, ride molto e di cuore.
Nel suo nuovo romanzo un bambino contagia gli adulti corrotti deturpandone il viso, uno scrittore di graphic novel si ritrova aggredito, in casa, da uno dei suoi personaggi. Il suo mondo fantastico è ben più minaccioso della nostra realtà ma il libro ha un incredibile lieto fine, fatto di pace e perfetta felicità. C’è del cinismo in questo da parte sua? Il mondo è messo così male che lei si sente in dovere di consolarci?
«Sinceramente mi sono molto stupito io per primo della piega che ha preso il libro. In questo testo più che nei precedenti sono ricorso all’improvvisazione, ho lasciato che andasse dove voleva e, cammina cammina, è arrivato a questa destinazione, dolce e idilliaca».
L’unico desiderio che resta irrealizzato è che gli incubi ritornino.
«Le fiabe ci insegnano a badare ai desideri, perché potrebbero realizzarsi. Uno dei grandi paradossi dell’umanità è che in realtà non vogliamo mai davvero quello che crediamo di desiderare. Il motivo è semplice: un mondo così tollerante, aperto, civile, buono, saggio, sarebbe terribilmente noioso. Forse noi uomini abbiamo bisogno di un po‘ di tenebra, rende la vita più interessante».
Ma non tanta tenebra come in questo periodo, o no?
«No, no, in questo momento è decisamente troppa. Evidentemente stiamo sbagliando qualcosa».
Le immagini di Parigi e di altri massacri sono da incubo. Come si può impedire che Parigi e le altre metropoli europee cambino definitivamente per colpa del terrorismo?
«Non posso dire altro che quello che dicono tutti, è una cosa terribile. Ma ricordo l’Inghilterra degli anni settanta, vivevo là ai tempi delle bombe dell’Ira. Ci furono una gran quantità di attentati in locali pubblici, ma gli inglesi hanno stretto i denti e hanno continuato a vivere come prima. A Parigi pare sia lo stesso. Apprezzo molto gli hashtag come “Je suis en terrasse” e la vignetta di Charlie Hebdo che dice: “Grazie tante per le preghiere per Parigi, ma di religione ne abbiamo abbastanza“. La religione di Parigi è la musica, sono i baci, la vita, lo champagne e l’allegria. A New York dopo l’11 settembre ci è voluto un po‘ prima che la città si riprendesse. Per un periodo perse la sua newyorchesità, perché la gente era spaventata e traumatizzata. Nelle settimane dopo gli attacchi sembrava che all’improvviso i newyorchesi fossero diventati tutti buoni, si parlava di negozianti che regalavano le scarpe a chi non le aveva, e di tutta una serie di gesti zuccherosi di solidarietà, ma alla fine sono tornati tutti scostanti, aggressivi, non più cosi maledettamente gentili e in quel momento ho pensato: bene, si sono ripresi».
Pensa che se la fatwa contro di lei fosse emessa oggi che ci sentiamo tutti minacciati dal terrore islamico la solidarietà nei suoi confronti sarebbe maggiore rispetto a un tempo?
«No, credo minore».
Perché?
«Non c’è dubbio. Sono rimasto molto stupito quando il Pen americano a maggio aveva deciso di premiare Charlie Hebdo per il coraggio dimostrato nella difesa della libertà di parola e tanti autori importanti, come Peter Carey, Joyce Carol Oates, Junot Díaz, Michael Ondaatje hanno protestato, tacciando la rivista satirica di razzismo, sostenendo che Charlie offendeva un gruppo già oppresso e in situazione di difficoltà. Non è affatto vero: Charlie Hebdo non ha mai attaccato la comunità musulmana, bensì i fanatici, i disegnatori non sono affatto razzisti. All’epoca mi ha particolarmente colpito che a guidare la protesta fosse Teju Cole, uno scrittore nigeriano- americano di grande talento. Avevo molto elogiato il suo primo libro e gli ho scritto: “Teju, ma che diamine fai?“Mi ha risposto che mi rispetta moltissimo e che gli ho insegnato molto, ma nel mio caso l’accusa era di blasfemia e contro la blasfemia lui non aveva nulla, anzi la blasfemia porta all’evoluzione della società. Invece in quel caso di trattava di razzismo. Gli ho risposto: “Quella gente è andata negli uffici di Charlie Hebdo con l’intento di uccidere perché secondo loro il loro profeta era stato offeso. Quindi si è trattato di blasfemia. E se non puoi sostenere Charlie Hebdo, non puoi sostenere neanche me”».
E questo l’ha sorpresa?
«Ero scioccato. Sei I versetti satanici fosse pubblicato oggi sarebbero in molti a dire che è un libro che offende una minoranza. Avrei tante più difficoltà».
Da cosa dipende?
«È per via del politicamente corretto. In Europa per l’antiamericanismo che vede gli Usa come la potenza malvagia. Qualunque cosa facciano, gli Stati Uniti sbagliano. Una parte della sinistra in Inghilterra e in Europa è alleata dell’islamismo, ed è un bel problema. All’epoca solo tre o quattro autori non stavano dalla mia parte. Ma in tutto il mondo il 99,9 per cento era con me, la solidarietà fu fortissima, anche nel mondo islamico. Allo scopo di sostenermi fu pubblicato un libro che conteneva 100 saggi scritti da intellettuali musulmani. Fu straordinario».
Ha più paura in questo periodo?
«Ma no, convivo con questa situazione da – quanti sono ormai? – 27 anni. La paura non aumenta. Da 16 anni a questa parte non vivo più sotto protezione, abito a New York da uomo libero, viaggio per il mondo, appaio in pubblico, tengo letture, tutto normalmente. Il tempo passa così in fretta. Se oggi racconti a un ragazzo la vicenda della fatwa la prenderà come una fiaba del tempo che fu. La gente ha altre cose più importanti a cui pensare».
Siamo a Potsdamer Platz a Berlino e non lontano da qui, più di 80 anni fa, vennero messi al rogo i libri non tedeschi. Anche i suoi libri sono stati bruciati un tempo. Pensa mai che sia anche un onore? Che i leader di un regime totalitario temano la letteratura al punto da doverla dare alle fiamme e bandire o assassinarne gli autori?
«È difficile vedere qualcosa di positivo nei roghi dei libri. Però ha ragione. È un mistero che il potere abbia questa immensa paura delle parole, paura di chi le sa usare. Ovunque nel mondo i regimi autoritari si scagliano contro la letteratura. E la letteratura non ha eserciti, non ha bande, non ha gruppi armati, ma ha questo potere: rifiuta che si possa imporre a una società una storia dal di fuori. I tiranni cercano di imporre al loro paese un’unica narrazione: è come diciamo noi, non sgarrate se no sono guai. La letteratura sgarra sempre. È la sua natura».
©2015 Der Spiegel
Traduzione di Emilia Benghi