la Repubblica, 14 dicembre 2015
Storia di Henri Cochet, il figlio del custode che cambiò il tennis
«È lui? Cochet?». «Credo di sì». Simile ammirata domanda ci rivolgevamo io e il mio compagno di doppio Umberto “Bitti” Bergamo, nel giardino del Tennis Club Mentone, in cui disputavamo il nostro primo Torneo Internazionale, nel Febbraio del 1951. Oggetto della nostra ammirata curiosità era un vecchio, un cinquantenne, vestito con lunghi calzoni di flanella bianca, come non si usava più, dal giorno in cui i tennisti americani avevano reso abituali gli shorts, i pantaloncini corti, e addirittura la T shirt, che aveva sostituito non solo le maniche lunghe delle camice, ma addirittura le camicette Lacoste, inventate proprio da un amico e partner di Henri Cochet, Renè Lacoste, quello del coccodriletto, in Italia commercializzato da Monsieur Pietrangeli, il papà di Nicola.
Avevo letto, grazie alla mia mania, tre libri di Cochet, e un quarto su di lui. In uno di questi, il suo partner e amico Renè Lacoste affermava: «È un vero regalo veder giocare Cochet. Come ha detto lo stesso grande Bill Tilden, Henry ha un gioco incomprensibile. Non ha servizio, non ha rovescio, non picchia forte ma piazza la palla nei posti più inattesi. E poi, sembra sapere dove il suo avversario dirigerà il colpo». Lo stesso Tilden, N.1 mondiale dal 1920 al ’25, dopo una delle sue sette sconfitte su 9 match contro Cochet, scriveva: «Cochet ha giocato un tennis che io non ho mai immaginato».
Ma non era finita. Su uno dei libri che mi avrebbe, in seguito, autografato, era scritto che quell’omino aveva incontrato e battuto non solo Tilden. Si era addirittura preso il lusso, e che lusso, di vincere un match contro quel Donald Budge che ancora nè il mio amico Bergamo, né io avevamo avuto la fortuna di ammirare. Il californiano, nato ad Oakland, che era stato il primo a raggiungere il Vello d’Oro del gioco, battezzato Grand Slam. Infatti, scriveva Pierre Albarran, tennista tipo Clerici, ma grande giocatore e teorico del bridge, all’alba della seconda grande guerra, nel 1939, Cochet aveva incontrato Budge, di quindici anni più giovane, a Bordeaux. Ed era accaduto che Henri, «senza picchiar troppo, non dando peso alla palla, soprattuto giocata corta e incrociata, avesse d’un tratto reso falloso l’infallibile californiano: avvezzo, di suo, a ricevere folgori, e ad utilizzare l’energia della palla per rispedirla ancor più carica di violenza, esplosiva».
Era il primo, tra i Grandi Campioni, Cochet, che potevamo vedere da vicino, addirittura parlargli. Sentendoci simili ad un liceale che ritrovi, vivi, gli eroi di Omero. Per nostra fortuna, conoscevamo il francese, e, trascinato dal mio compagno, trovammo il coraggio di presentarci. Cochet sorrise, disse che aveva appena esaminato il tabellone, e aggiunse che, forse, ci saremmo rivisti in finale: aveva sentito parlare bene di noi. Proprio di me gli aveva tessuto lodi sicuramente eccessive il suo famoso partner Brugnon, che mi aveva sorpreso sino al rossore abbracciandomi, l’anno prima, alla fine di una partita junior, al Roland Garros, in cui avevo battuto il campione di Francia, Robert Haillet. Brugnon si era ritirato, causa l’età, così come gli altri grandi francesi, René Lacoste e Jean Borotra, soprannominati i Moschettieri, perché non solo con Henri erano quattro, ma erano altrettanto grandi dei personaggi di Dumas. Mentre i primi tre appartenevano, come tutti i tennisti di allora, a famiglie benestanti, Cochet era insolitamente uscito dalle modeste origini di figlio del custode dei campi di Lione, aveva trovato aiuto nel Presidente del Club, Cozon, che gli aveva offerto un posto nella sua fabbrica di seta, ed era via via divenuto un tennista full time, segretamente mantenuto dalla Federazione Francese, per evitargli una squalifica per professionismo. Erano stati i primi, i Moschettieri, a dimostrare che non occorreva essere anglosassoni per vincere Davis e Wimbledon e Campionati Usa.
Quello che ci parlava era l’uomo capace di trionfare nella squadra di Davis dal ’27 al ’32, perdendo in finale un incontro su 10, di vincere Wimbledon nel ’27 e nel ’29, il Campionato Usa nel ’28, e di essere considerato il N.1 mondiale dai grandi critici del tempo (allora il computer era in mente dei) dal 1928 al 1931 incluso.
Ora scendeva sull’unico campo attorniato da una tribunetta del modesto club Mentone, di fronte a 200 spettatori, in un doppio nel quale aveva privilegiato un francese di nome italiano, tale Garnero, quale partner. Scelto, forse, anche perché quel suo compagno era il marito di una signora considerata, in qualche modo, la Dama più importante, l’organizzatrice mondana dei tornei della Costa Azzurra: riviera che, con i suoi cinque tornei,occupava la parte iniziale della stagione primaverile del tennis internazionale.
Guardammo, aspettandoci chissà quali tuoni, dalla racchetta di Cochet, una Dunlop, ma presto rimanemmo increduli. Quello che era stato il Campione del Mondo giocava piano. Ancor più piano di quanto mi fossi già sorpreso nel leggere il libro di Pierre Albarran. Certo, accarezzava la palla con una mano sensibilissima, ma non la colpiva mai con la violenza di cui è capace un campione. Restammo ad osservarlo una ventina di minuti, poi fummo chiamati dal giudice arbitro Ostertag, famoso per la sua severità, a scendere in campo, per il nostro secondo turno di doppio. Giocammo, conducemmo contro due sconosciuti francesi, e quando fummo vicini a vincere vedemmo, a bordo campo, apparire Cochet, che, finita la sua partita, aveva indossato un elegante cappotto di cammello, e ci guardava, insieme alla giovane moglie.
Vincemmo la nostra partita, poi un’altra, battemmo in semi due svedesi che sarebbero giunti alla Davis, Axelsson e Blomquist. Ma non finivamo di osservare, intanto, Cochet che, tra l’ammirazione del pubblico, si era facilmente issato alla finale. Per noi, la nostra prima finale. Scendemmo in campo, ancor più che timorosi, riverenti. E ci rendemmo conto, vedendo alfine quel grande dall’altra parte della rete, di quella che era stata – e ancora era – la sua più grande qualità. L’anticipo. Cochet colpiva la palla non appena questa rimbalzava, e la rigiocava con traiettorie angolatissime, oppure dirette al petto, costringendoci, sempre, al disagio.
Dopo qualche minuto, ci parlammo, il mio compagno ed io. «È un genio, mai visto eguale. E, da adesso, giochiamo soltanto sul suo partner». Così facemmo, con testarda ripetitività, e, via via, andammo in vantaggio, e finimmo per vincere una partita che, all’inizio, il gioco di Cochet aveva reso proibitiva. Mi inchinai, alla fine, mentre stringevo la mano a quel grande, il quale aveva sorpreso, non meno di me, addirittura Bill Tilden.
Ne avrei dato conto in un pezzo ospitato dalla Gazzetta, diretta da Gianni Brera, apparso il 6 marzo 1951. «Con l’eleganza giovanile con cui un vecchio aristocratico appunta un garofano al suo liso abito da cerimonia, egli colora il suo gioco di trovate che odorano di giovinezza, e a volte il roteare nervoso della sua racchetta ricorda il mulinello di una mazza d’avorio dal pomo ingiallito».