la Repubblica, 14 dicembre 2015
La Guerra fredda raccontata da Spielberg
Lontano come un incubo dell’infanzia, vicino come il presente che torna a parlarci con Putin anche di guerra nucleare, il viaggio sul Ponte delle Spie nella Berlino della Guerra Fredda al quale Steven Spielberg ci invita sembra scritto con l’inchiostro della nostalgia e della paura per un tempo nel quale “noi” eravamo noi, e “loro” erano loro. Ma era ancora possibile per noi e per loro, per gli uomini di buona volontà, attraversare l’abisso senza precipitare nell’olocausto dell’annientamento reciproco.
La storia che Il Ponte delle Spie racconta è un evento realmente accaduto eppure largamente trascurato nella narrazione epica e ideologica del confronto fra Est e Ovest fra la fine della guerra mondiale e la dissoluzione del Muro di Berlino nel 1989. Segnalato a Spielberg da un aspirante sceneggiatore inglese al suo primo tentativo, immediatamente ripreso da lui e affidato al genio del fratelli Cohen, quelli di Fargo, Il Grande Lebowsky e Non è un Paese per vecchi per la sceneggiatura definitiva, è lo scambio fra un agente del Kgb, una “talpa” annidata a Brooklyn chiamata – forse – Rudolf Abel e Gary Powers, il pilota dell’ aereo spia americano U2 abbattuto dalla contraerea e catturato mentre sorvolava per conto della Cia il territorio sovietico.
Costruire un film sopra un avvenimento storico dal finale noto e scontato, senza il sangue di un Presidente assassinato come Lincoln, senza inseguimenti, senza violenza, senza sesso, imperniato sopra due uomini straordinariamente banali, la spia sovietica con l’hobby della pittura e un avvocato specializzato in controversie assicurative, è un avventura che soltanto uno come Spielberg, e due attori come Tom Hanks l’avvocato e il sensazionale Mark Rylance, preso dal teatro per diventare Rudolf Abel, potevano avere la imprudenza di affrontare.
La gigantesca filmografia prodotta dalla Guerra Fredda pesava sull’ipotesi di lavoro, dal Dottor Stranamore ai cartoon scintillanti di James Bond, dall’angosciosa cupezza della Confessione di Costa-Gavras alla labirintica sottigliezza del LeCarrè sceneggiata in Tinker, Taylor, Soldier, Spy.
Ma nel Ponte delle Spie, i fratelli Cohen, Hanks, Rylance e Spielberg sfuggono alla trappola del thriller di spionaggio, della propaganda, della semplice ricostruzione storica andando a cercare la verità che la storia trascura: quella che sta dentro gli uomini che la incarnano.
Il cuore, e il senso del Ponte delle Spie stanno nel filo che lega e che ritorna in tutto il lavoro di Steve Spielberg, dal lontanissimo Duel del 1971: la risposta dell’uomo qualunque, della “ordinary person” posta, di fronte a circostanze straordinaria. E riesce, semplicemente cercando di fare quello che pensa sia giusto non soltanto a sopravvivere, ma a vincere, anche a costo di morire, come il capitano alla ricerca del Soldato Ryan. Donovan, l’avvocato che Hanks interpreta, rischia la propria posizione professionale, la famiglia, il prestigio, la carriera e forse la vita per garantire a una spia russa, al nemico, quella difesa legale che la Costituzione americana promette a tutti, e che non sempre mantiene. Perchè l’America vincerà la Guerra Fredda non con le bombe, ma con il rispetto della legge proclama il patriottismo sottopelle di Spielberg.
Quando gli viene ordinato, di fingersi difensore in tribunale di Abel, il ricordo dell’esecuzione dei coniugi Rosember è ancora bruciante fra la gente. La minaccia dell’attacco nucleare sovietico è immanente e quotidiana, ricordata nei segnali di rifugi antiatomici dipinti sugli edifici, nei filmini in bianco e nero – che naturalmente Spielberg riprende – girati per dare ai bambini, e ai loro genitori, l’illusione che ci si potesse riparare dalla bomba semplicemente chinandosi e nascondendosi sotto i banchi di scuola. E Abel deve morire.
Sarà l’abbattimento dello aereo spia americano a offrire l’occasione per uno scambio, organizzato sul lugubre ponte di ferro sospeso sul lago di Wannsee, a Postdam, a poca distanza da quella villa dove, nel 1943, gli architetti della Soluzione Finale, dello sterminio degli ebrei, si erano riuniti per i dettagli tecnici dell’Olocausto. Uno snodo fondamentale fra spazio e tempo che Spielberg, l’autore di Schindler’s List “scoprì con un tuffo di angoscia al cuore”, come mi ha detto nell’intervista uscita sul Venerdì di Repubblica.
Ed è in questa coincidenza fra orrori consumati e orrori evitati, nel grigiore gelido della Berlino Est ancora in rovine, nella ambiguità umana dei protagonisti, che l’arte di Spielberg si dispiega in tutta la sua abilità, creando suspense dove non ne esiste più, facendo sorridere dove non ci sarebbe nulla da ridere, riuscendo a ironizzare sulle debolezze, la retorica, la follia di un tempo che riesce a rendere angoscioso nei primi 27 minuti del film, completamente senza musica di fondo. Qualcuno fra i critici ha voluto definire Il Ponte delle Spie come un capolavoro spielberghiano, ma lascio il giudizio a chi lo vedrà. Per chi, come me, ha attraversato quel ponte sotto lo sguardo dei cecchini opposti, ha subito il tormento del Check Point Charlie, ha camminato nella neve lungo il Muro come l’avvocato Donovan e ha sentito nelle ossa il freddo della Berlino comunista, il film è troppo vicino alla vita vissuta per non risentire il brivido di quel tempo. E scoprire, come Spielberg, di ripiangerlo, nella sua apocalittica, ma lancinante certezza.