Corriere della Sera, 14 dicembre 2015
Sorrentino premiato agli Oscar europei: «Però in Italia i premi non servono a niente»
Paolo Sorrentino è contento e un po’ malmostoso: «Mi è dispiaciuto, perché era un’occasione di festa, solo che c’è un cinema italiano che da qualche anno all’estero è visto con molta attenzione, ma in Italia nei media prevale la diffidenza». Ha vinto, anzi ha stravinto agli Oscar europei (European Film Awards) con Youth – La giovinezza: miglior film, migliore regista, e in fondo anche il premio al suo protagonista Michael Caine, nei panni del direttore d’orchestra, un poco gli appartiene.
La cerimonia a Berlino è finita, è passata mezzanotte. L’unica cosa di cui non vuole e non può parlare è la serie tv «The Young Pope»: «C’è un embargo della HBO, siamo a due terzi delle riprese, è cominciata la discesa».
L’Europa le ha dato tanti riconoscimenti, mentre al Festival di Cannes Youth è stato ignorato: che sapore ha questa serata?
«Di premi ne avevo avuti abbastanza, ovviamente mi riempie di gioia. È un piccolo film, intimo, se arrivano premi è qualcosa di imprevisto e dunque ancora più gioioso».
Quando si parla di futuro si pensa ai giovani. Lei invece parla delle aspettative di due 80enni (l’altro è Harvey Keitel) rispetto al domani.
«Youth è un film su come si possa affrontare il futuro in qualunque momento, è una storia sulla percezione della libertà».
Il «piccione» di Roy Andersson (dopo il Leone d’oro a Venezia 2014) ha vinto come migliore commedia, ma lui dice che nella sua Svezia non hanno capito che fa ridere ed è «frustrante e imbarazzante». Anche lei in Italia divide.
«Condivido un proverbio arabo che dice: i cani abbaiano, invece la carovana procede. Sono insensibile a chi mi attacca».
Non fa parte delle regole del gioco?
«Lo sapevo fin dal primo momento che ho voluto fare questo mestiere, che andava fatto col massimo coraggio e spregiudicatezza, e comporta fischi e applausi. Per me l’importante è lavorare: i premi mi consentono di farlo con maggiore agio e libertà».
E possono aiutare l’intero sistema?
«No. Lo pensavo quando vinsi l’Oscar per La grande bellezza. Mi sono ricreduto. I premi non fanno mai succedere niente. A Berlino sedici sale proiettano film francesi: tocca alla politica, è l’unica che fa succedere le cose».
E i produttori?
«Sono ammalati di prudenza, se non di paura. Si cerca di andare sul sicuro. Questo è un lavoro dove l’imperativo categorico è il coraggio. Va abbandonata la prudenza. Poi ci vogliono le idee e uno stile riconoscibile. Ma il coraggio va condiviso coi produttori. Se io sono coraggioso e non trovo interlocutori, non serve a niente. Intanto la stampa non aiuta, il che non significa incensare ogni film italiano, c’è libertà di critica, ci mancherebbe. C’è sempre però diffidenza verso il nostro cinema, anche quando va bene».
Bisogna pensare a cast internazionali?
«Non si deve per forza pensare in grande. Crialese girò Respiro in un’isoletta con attori che non sono Michael Caine. Fu un successo mondiale. La discriminante è quando la gente va in sala e dice: toh, questo film l’ho visto un po’ meno di altri. Senno’ fai una cinematografia morta, non è un problema solo italiano. Bisogna mettere i giovani nella condizione di non autocensurarsi, di non dire non faccio un film drammatico tanto nessuno me lo produce. Per contro esiste un cinema italiano molto vivo. Moretti, Garrone, Bellocchio. Tra i giovani Valerio Miele, ma rischio di fare torto a qualcuno».
Come spiega la diffidenza?
«Come scarsa propensione ad amare ciò che va bene e la sordida predilezione per ciò che va male. Non è così scontato vincere qui e prendere due candidature ai Golden Globe, o che Margherita Buy fosse candidata a Berlino accanto a attrici mostruose. Gli altri Paesi colgono quest’improvvisa straordinarietà del nostro cinema, sono più attenti, ecco perché sono aggressivo. A volte a noi registi vengono offerti progetti negli Usa da fare con gli studios che uno rifiuta perché abbiamo una cultura europea. Sono cose che non si sanno, però avvengono. Dieci anni fa nessuno ci offriva nulla».
In sala Charlotte Rampling e un po’ tutti gli attori hanno espresso un sentimento di solidarietà, nei discorsi c’era un continuo richiamo al pluralismo, alla libertà.
«Questi premi sono arrivati in un momento in cui l’Europa si sta compattando nel dolore di Parigi. Ho sempre registrato questa intesa anche sentimentale con i colleghi europei».