14 dicembre 2015
In morte di Mario Dondero
Gianluigi Colin per il Corriere della Sera
Qualche mese fa un fotografo ha inoltrato un’email agli amici: «Mario ci sta lasciando. Siamo sempre più soli!». Ora siamo davvero più soli: Mario Dondero, vera leggenda di quella fotografia che coniuga reportage con la parola umanità se n’è andato ieri sera a 87 anni nella sua Fermo, che aveva eletto come amata stazione di cambio dove rifare lo zaino (mai la valigia) prima di uno dei tanti viaggi, spesso senza meta, per incontri che avevano come alibi la macchina fotografica. Infatti, scherzavano i suoi compagni di tante avventure, Dondero sta a Fermo, ma fermo non sta mai. E tutti sapevano anche, che il mondo della fotografia è sempre stato per Mario una straordinaria scusa per incontrare il mondo e raccontare le mille storie della commedia umana. Non una visione romantica. O almeno, non solo: Mario Dondero ha sempre avuto la stessa idea d’impegno civile dei grandi della storia del reportage come Robert Capa e Henri Cartier-Bresson, pensando sempre alla fotografia come a quell’esperienza in cui bisogna «mettere sullo stesso asse, occhio, testa e cuore».
Anche per questo Mario Dondero è stato un vero protagonista della cultura europea: nato a Milano nel 1928 ma di origini genovesi (di qui la sua appassionata fede per il Genoa), entra a 16 anni, nelle brigate partigiane della Val D’Ossola e non a caso gli danno il nome di battaglia «Bocia»: «Diventare partigiano era la scelta più naturale che un cittadino onesto dovesse fare». Poi, a Milano, è protagonista di quella stagione straordinaria del Jamaica, in cui a Brera si viveva la «vita agra», piena di speranze e sogni raccontata da Luciano Bianciardi. E già allora Dondero è a suo modo un personaggio: amico di Piero Manzoni, Lucio Fontana, Camilla Cederna, Ugo Mulas, Carlo Bavagnoli, Uliano Lucas, Alfa Castaldi, Gianni Berengo Gardin. Per tanti era un vero mito.
E poi Parigi: la Rive Gauche, il Sessantotto, le piazze, le lezioni di Marcuse, le riunioni di «Le Monde», i ritratti di Sartre e Simone de Beauvoir. E poi di nuovo in Italia, per ripartire sempre, senza sosta, per un servizio in Algeria, nei teatri di guerra, per un’inchiesta sui manicomi o semplicemente per un abbraccio con un amico di cui sentiva nostalgia.
In qualche modo, Mario Dondero è sempre stato un dolce e appassionato agitatore di umanità. Un irrefrenabile collezionista di incontri, fossero scrittori, artisti, poeti, registi, giornalisti o camalli del porto della sua Genova. Del ricco universo di esistenze con cui incrociava lo sguardo, diventava spesso un fraterno amico, un compagno di viaggio, un complice. D’altronde, bastava la sola presenza di Mario per modificare la realtà delle cose: i volti delle donne, innanzitutto. Durante una cena, in un incontro occasionale o anche in un austero convegno, Mario era capace di improvvisare una struggente canzone francese e allora, fanciulle di ogni età si illuminavano con un sorriso. Mario aveva qualcosa di prezioso, indecifrabile e raro, quasi fosse la dote sciamanica di entrare in sintonia con ogni essere umano, virtù che suscitava insieme ammirazione, invidia, benevolenza, complicità e rabbia. Sì, anche rabbia, perché Dondero era capace di fermare il tempo, di bloccare ogni lavoro, di deviare ogni viaggio concordato, di tenerti bloccato dovunque tu fossi perché ti portava nel suo dolce vortice affabulatorio: vite incontrate, utopie e disincanti, poesia e fotografie. Era il «fattore Dondero».
È stato il «fattore Dondero» a far nascere, con una sua ormai celebre immagine (come sancì Alain Gobbe Grillet), Il Nouveau Roman, la corrente che scardinò i codici letterari del secondo Novecento. Fu proprio di Dondero l’idea di chiamarli e fotografarli così, non in posa, quasi fossero un gruppo di amici che si incontravano per caso: «Fu divertente come scattare una foto di una scolaresca a Parigi». Ed è stato ancora il «fattore Dondero» a creare quella amicizia con tanti scrittori e artisti: Alberto Moravia, Goffredo Parise, Giosetta Fioroni, Laura Betti, Pier Paolo Pasolini, Mimmo Rotella, per citare solo qualche nome. Ma nel suo «non-archivio» ritroviamo alcuni protagonisti del Novecento: Castro, Aragon, Grass, Neruda, Ionesco, Panagulis, Callas, Bacon, García Márquez e molti altri ancora. È stato il «fattore Dondero» a dar vita a quell’immagine in cui Pasolini è ritratto con sua madre, in un gioco di composizione perfetto: lo sguardo dell’una sembra fondersi con l’altro, creando, sospesa nel tempo, l’idea dell’energia silenziosa e assoluta che lega ogni madre al proprio figlio. Occhio, talento, intelligenza, simpatia, generosità. E, su tutto, libertà. Mario Dondero, con il «suo candido charme di bohémien senza radici» (così l’amico Corrado Stajano) era un uomo che amava la libertà sopra ogni cosa.
Il vero archivio era la sua memoria: di fronte ogni singola fotografia amava raccontare del personaggio ritratto, di quello che era accaduto mentre scattava, dei fatti politici e dei retroscena che avevano portato a quel certo evento. E poi, quasi per giustificarsi: «Sono stato sempre con la testa in avanti. Ecco perché non ho mai badato all’archivio». Mario aveva l’energia, la visione sognante e l’incoscienza di «quattro volte un ragazzo di vent’anni».
La fotografia di Mario Dondero è intesa come puntuale racconto della realtà, necessità etica, senso dello stare al mondo. Aveva come mito Robert Capa: «Il mio impegno nasce solo dall’importanza della fotografia come strumento di assoluta testimonianza», ricordava. E aggiungeva: «Non è che a me le persone interessino per fotografarle, mi interessano perché esistono».
Il lungo addio di Mario Dondero, accompagnato con dedizione dalla sua compagna Laura Strappa (che ha anche curato la sua ultima grande mostra a Roma un anno fa) è stato quello di un uomo che ha vissuto una vita in bianco e nero nel nome della libertà. Sino all’ultimo, l’ha inseguita anche quando le forze lo stavano abbandonando. Voleva a tutti costi mettersi di nuovo sul treno per andare a Milano per trovare il nipote, Leonardo, che la figlia Maddalena gli aveva donato; insisteva per rimettersi in viaggio, per andare a fare un nuovo servizio con Gino Strada. Voleva lasciare il letto dov’era inchiodato con la caparbietà di chi ha inseguito sempre i sogni e le utopie. E la vita l’ha inseguita davvero sino alla fine: i tantissimi amici che sino all’ultimo sono andati a salutarlo, li ha congedati tenendo loro la mano e scuotendola con le poche forze che gli restavano. Poi, a tutti, con un filo di voce, ha sussurrato con un sorriso: «Viva Genoa».
Antonio Gnoli per la Repubblica
Solo a Mario Dondero, nella sua malattia terminale, poteva accadere di chiedere davanti alla meraviglia di medici e infermieri di farsi un ultimo pasto in trattoria. E così accadde. Per ben tre volte. Mi dicono che mangiò di gusto e accennò Les Feuilles Mortes — uno dei suoi cavalli di battaglia — una canzone che gli somigliava, prima di farsi riportare nel luogo della sua ultima degenza. È morto ieri, a 87 anni, a Fermo dove mercoledì ci saranno i funerali. Davvero, Mario fu speciale. Ci si era fuggevolmente incontrati in occasione
della sua grande mostra a Roma. L’ultimo omaggio a una storia per certi versi straordinaria. Vissuta con leggerezza e passione. Era lì, nel bellissimo spazio delle Terme di Diocleziano, affaticato ma felice. In mezzo alla gente. Vecchi amici e tanti giovani. Sbalorditi dal lavoro che nel corso di una vita aveva saputo svolgere e raccogliere come fosse un grande romanzo sul mondo. Consapevole che la storia la fanno gli altri e riluttante a celebrarsi. Forse in omaggio al frutto anarchico che ha assaporato come la sola forma di libertà autentica. E quella sera, tra le centinaia di foto, mi sembrava contento di essere ancora una volta nel posto giusto al momento giusto. Anche se quella coincidenza, tra il luogo e il momento, sembrava non lo riguardasse personalmente. In fondo poche persone come Mario Dondero si sono disinteressate al proprio destino. Alla propria storia. Una trascuratezza che è stata insieme modestia e rispetto dell’altro. Artigianato, grandissimo, e storia sociale.
Aveva attraversato esperienze aspre e precoci. A 16 anni era stato in montagna con i partigiani. Catturato dai fascisti si salvò miracolosamente. La guerra portava con sé i pericoli e le tragedie. Poi vennero gli anni della speranza. L’idea di entrare in una nuova vita. Aveva una passione naturale per il giornalismo. Mario era nato a Genova. Avrebbe dovuto fare il marittimo seguendo le tradizioni familiari. I suoi cugini erano marinai. Si iscrisse al nautico di Camogli e poi invece si ammalò e gli fu consigliato il ginnasio.
Nei primi anni Cinquanta si stabilì a Milano. C’erano i quattro punti cardinali: la Scala, il Piccolo, l’Accademia di Brera e il Giamaica.
Dondero cominciò a frequentare quest’ultimo. Era un bar e un ritrovo di gente che avrebbe fatto un po’ di storia culturale. Vi conobbe Alfa Castaldi che sarebbe diventato un eccellente fotografo di moda. Si riconobbero dal fazzoletto rosso di partigiano. Al Giamaica si incontravano artisti come Gianfranco Ferroni e Piero Manzoni. Fotografi alle prime armi come Ugo Mulas e perfino il fratello di Antonio Gramsci che giocava a scopa con il Maestro Confalonieri. Bianciardi ha illustrato con La vita agra che cosa sia stata quella stagione, che per Dondero cominciò nel 1952 e finì due anni dopo. A Parigi arrivò alla fine del 1954. Ho ancora sotto gli occhi la sua fotografia più celebre. La più letteraria. Un gruppo di premi Nobel, tra cui spiccava serafico Samuel Beckett, davanti all’entrata delle edizioni Minuit. Fu Mario che in un momento ebbe l’idea di raccogliere quel parterre di scrittori che quasi senza saperlo davano inizio a una stagione segnata dal Nouveau roman. Tre cose prese dalla Francia: la Rivoluzione (quella dell’89 e in parte il ’68); le donne e qualche fotografo. Tra questi Willy Ronis — un ebreo di Odessa, emigrato in Francia — il cui sguardo stregò Dondero. Conservava ricordi bellissimi di Henry Alleg, un fotoreporter arrestato e torturato durante la guerra di Algeria dall’Oas. Furono anni straordinari cuciti dall’esistenzialismo e dagli scrittori che Dondero frequentava: Arthur Adamov, Claude Simon e dagli attori — spesso emigré — come Serge Reggiani e Yves Montand.
Il talento non lo ha reso ricco. Si aveva la sensazione che la sua carriera sarebbe potuta essere molto più confortevole e omaggiata. Detestava lavorare a lungo e stabilmente per una testata. Temeva che avrebbe finito con l’appiattire il suo stile, spersonalizzarlo: «Un fotografo», disse, «non può che essere un freelance o, meglio, un cane sciolto». Si definiva di sinistra. Gli piaceva, istintivamente, stare dalla parte dei deboli. E non aveva rinunciato all’idea che si potesse, chissà, forse un giorno, costruire un mondo nuovo. Senza eccessi ideologici né utopie. C’era in lui qualcosa che sfiorava la religiosità. Un senso di laicissima propensione verso il mondo che egli chiamava pietas. Era l’amore per la gente. O meglio per le classi umili.
Senza essere credente proiettava la tensione verso l’altro, non a caso gli era capitato di intraprendere faticosi viaggi con gli amici di Emergency in Afghanistan. Si muoveva sempre con uno spirito contro, contro lo strapotere contro ciò che opprime. E si è sempre considerato un fotografo politico. Dondero è stato uno dei grandi fotoreporter degli ultimi cinquant’anni. Aveva una regola: non servirsi degli uomini per fare fotografia, ma fare fotografia per capire meglio gli uomini.
Nel suo lavoro di reporter ha cercato di essere il più semplice e lineare possibile. Raccontando la realtà in modo aderente al vero. Era il valore che egli dava alla verità del momento. Mentre provava fastidio per l’abbellimento, l’estetica, l’artificioso. Sapeva che esistono molti modi di fare fotografia. Ma chi vuole raccontare la realtà, non la inventa. La osserva e la interpreta. Anche, e forse soprattutto, con il pathos che ogni gesto umano a volte nasconde. Consapevole che l’arroganza, il sopruso, la violenza sono tratti altrettanto ineliminabili. E non a caso le foto che egli ha realizzato nella Fortezza di Terezin, in quel teatro di una crudeltà senza appello dove gli ebrei venivano rinchiusi e torturati, stanno lì a mostrarci la potenza devastante del nostro passato. Le porte spalancate delle celle, gli spazi minuscoli e temibili, occupati degli interrogatori della Gestapo, gli esterni di quella minacciosa costruzione dicono, quando anche il dire stenta a farsi parola, a rendersi comunicazione.
Che ne è della immagine, se l’immagine testimonia l’invedibile? Fu l’interrogativo dei suoi ultimi tempi. Senza possibile soluzione che non fosse quella dettata da una coerenza e da una dignità di mestiere.
L’ho rivisto, un’ultima volta, all’ospedale di Fermo. Dormiva. «Dopo giorni di sofferenza finalmente ha un’aria serena», mi ha detto Laura, la straordinaria compagna degli ultimi anni. La stanza piccola e luminosa. Il respiro leggero. Poi si è svegliato. Il volto scavato, calmo e gentile. La gentilezza, mista alla generosità, lo hanno fatto molto amare. Dai figli. Dagli amici. Dalle donne. Dalla vita.
Born to Walk. Strano. Se penso oggi a lui vedo l’uomo uscito di scena, la cui testimonianza resta tra noi. Ci precede e ci ricorda un signore con una vecchia macchina fotografica e uno sguardo che sembra uscito da una canzone di Yves Montand. Mario è stato un intrattenitore formidabile: «Oh vorrei tanto che tu ricordassi i giorni felici quando eravamo amici».
Fu un narratore di storie costruite con la lingua degli istanti. Lo vedo ancora mentre si offre ai rischi dell’esperienza sapendo che ogni cosa accade perché è così che deve essere.
Marco Belpoliti per La Stampa
Mario Dondero è stato per tutti una sorta di mistero. Prima di tutto come fotografo: pur essendo un fotografo straordinario, non ha mai dimostrato attenzione all’aspetto estetico della fotografia. Scattava immagini come respirava e il tutto, dalla conversazione allo scatto, ha sempre fatto parte del lato umano della sua vita, e insieme delle persone che ritraeva. Un modo per stabilire una relazione con qualcuno, per rinsaldarla, per prolungarla, per confermarla o per approfondirla.
Uliano Lucas e Tatiana Agliani nelle intense pagine che gli dedicano nel loro saggio sul fotogiornalismo italiano (La realtà e lo sguardo, Einaudi) scrivono che Dondero «fotografa in soggettiva», con una visione che «fa sentire l’osservatore della foto testimone della scena insieme al fotografo». Così che questo eterno vagabondo, anarchico pratico, comunista convinto, viaggiatore indefesso, uomo senza fissa dimora, nato a Milano da famiglia genovese nel 1928 e scomparso ieri a Fermo, può essere a ragione considerato l’unico fotografo naturale della nostra fotografia, l’unico capace di cogliere dal flusso delle immagini la propria immagine senza renderla però «l’immagine», senza trasformarla in un momento unico, in un simbolo o in un evento.
Il tempo scorre sempre
Nei suoi scatti il tempo non è mai congelato, scorre sempre: continua nel presente di chi guarda. Dondero fotografa ciò-che-è, e non, come riteneva Roland Barthes, ciò-che-è-stato. Questo perché, come ricordano Lucas e Agliani nel loro medaglione, partecipa sempre pienamente al momento che fotografa, «lo conosce e lo può raccontare dall’interno, nei suoi percorsi, nei suoi cambiamenti, in tutto il suo bagaglio di storie passate e nelle potenzialità dei suoi svolgimenti futuri».
C’è una sua celebre fotografia, più volte riprodotta, che fissa un momento dell’assemblea degli studenti alla Sorbona nel maggio del 1968. Si vedono i giovani assiepati sui banchi dell’aula che sale verso l’alto; sulla destra tre finestroni; da uno di questi entra la luce che è come una nebbiolina sottile e dorata che quasi cancella i volti di chi siede lì sotto. È un momento decisivo: la polizia attende oltre i cancelli; eppure di quell’aspetto drammatico lì dentro non filtra nulla. Una scena topica ma anche «qualunque» nella sua indeterminatezza. Una scena «naturale».
Sono centinaia le immagini come questa, oltre ai meravigliosi ritratti di uomini e donne celebri, oppure sconosciuti, visti quest’anno nella mostra alle Terme di Diocleziano (catalogo curato da Nunzio Giustozzi e Laura Strappa per Electa). Dondero ha partecipato giovanissimo alla Resistenza in Val d’Ossola, poi è stato giornalista e quindi fotografo per l’Unità e l’Avanti
!; negli Anni 50 ha lavorato a Milano Sera.
Robert Capa il suo maestro
Non erano ancora cominciati i Sessanta che questo dandy affettuosissimo era già una leggenda, incluso ne La vita agra di Bianciardi, legato a un sodalizio umano e culturale con Ugo Mulas e col giro del Jamaica.
Vagabondo lo è stato per lungo tempo, tra Parigi, dove va nel 1954, poi Londra nel 1960, e quindi Roma; poi ancora Parigi, fino a che nel 1999 si è trasferito a Fermo nelle Marche, nome antitetico al suo inarrestabile girovagare. Se un maestro Dondero l’ha avuto è Robert Capa, di cui ha amato le fotografie e l’impegno politico in Spagna, e di cui ha difeso la verità del suo miliziano che muore. L’elenco dei giornali per cui ha lavorato è lunghissimo, italiani e stranieri, dall’Espresso a Jeune Afrique, dal Giorno al Manifesto e a Diario.
Il mistero di Dondero è rimasto tale per gli studiosi di fotografia a livello europeo che non sono mai riusciti a classificarlo, a racchiuderlo in una definizione, come ha ricordato più volte Lucas. I suoi scatti erano destinati alla carta stampata, così che per molto tempo, prima della mostra di Roma, e una precedente a Genova, ben poche sono state le occasioni per vedere il suo lavoro appeso alle pareti piuttosto che su un ebdomadario o un quotidiano. Se c’è una parola che ben si adatta a lui è quella di freelance: un indipendente, che viaggia senza programma e senza contratto, spinto dalla curiosità, dall’estro, da un amore improvviso o da una ricerca.
In questo è stato sempre il vero padrone del proprio tempo, una bellissima definizione con cui ricordarlo, incerti come siamo ora tra il guardare le sue fotografie o il riascoltare nella memoria la sua voce, tra la grande fotografia di cui era capace e l’amicizia calda e serena che profondeva questo inarrestabile giramondo con la macchina fotografica tra le mani.