Corriere della Sera, 14 dicembre 2015
Citati rilegge La felicità familiare di Tolstoj, capolavoro che non piaceva al suo autore
Nella fine del dicembre del 1858, Tolstoj cominciò a scrivere La felicità familiare, il più bello dei suoi racconti e romanzi brevi. Presto si immerse profondamente nella stesura, sebbene dubitasse della qualità del testo. Quando ricevette le bozze, il 3 maggio 1859, scrisse: «Che merda vergognosa! Che macchia! Adesso sono sepolto come scrittore e come uomo. Ho corretto le bozze con un disgusto che mi è difficile descrivere. In tutta questa storia, non una parola viva… È una sofferenza vederla, leggerla, ricordarla». Confesso di non comprendere questa sfiducia, che diventa angoscia. La felicità familiare è un libro bellissimo, freddo e luminoso come la luna, che irradia le pagine, i lillà e i salici.
L’inizio è triste. La protagonista, Mària Aleksàndrovna, Maša, ricorda il tetro, malinconico inverno, trascorso nella vecchia casa di Pokròvskoje. La stagione era fredda e ventosa: i mucchi di neve si ammassavano più alti delle finestre, che erano quasi sempre ghiacciate e offuscate. La madre di Maša era morta nell’autunno. Per quasi tutto l’inverno non uscì mai a piedi o in slitta. Raro era il caso che qualcuno venisse a trovarli; e, anche se qualcuno veniva, non apportava svago o gioia. Tutti avevano le facce afflitte, tutti parlavano a bassa voce, come per timore di svegliare qualcosa. In casa si sentiva ancora la morte. Maša non usciva mai, non apriva il pianoforte, non prendeva un libro in mano. Nell’intimo, una voce le diceva: «A che scopo? A che scopo far qualcosa, quando così, inutilmente, si va perdendo il mio tempo migliore?». Aveva l’impressione che tutta la sua vita fosse destinata a trascorrere in questa solitudine remota, in questa malinconia senza scampo.
La natura salvava da questa tristezza e angoscia, pervadendo di sé tutti gli animi e tutte le cose. Quando giunse la primavera, da ogni parte saliva intenso il profumo dei fiori: l’abbondante guazza intrideva l’erba: un usignolo trillava poco lontano, in un cespuglio di lillà, e poi si azzittiva, udendo le voci umane; il cielo stellato si abbassava sulle persone.
Tutto era luce. La luna piena pendeva sulla casa, e la campagna era irrorata dall’argento della guazza e della luce lunare. Il largo viottolo tra le aiuole, illuminato e gelido, si perdeva nella nebbia e nella lontananza. Tra gli alberi traspariva luminoso il tetto della serra. Alcuni dei cespugli di lillà erano in piena luce, fino ai rami. Tutti i fiori, inumiditi dalla guazza, risultavano distinti l’uno dall’altro. I viali non parevano alberi e strade, ma diafani, ondeggianti edifici. Fuori dall’ombra della casa usciva, stupendamente espansa, la cima di un pioppo.
Sergej Michàjlovic era il tutore della famiglia: la madre di Maša aveva desiderato che egli sposasse la figlia. Non era sottile, pallido e afflitto come l’uomo ideale di Maša: non più giovanissimo, aveva uno sguardo sincero e lieto, che guardava fisso negli occhi; aveva modi semplici, una faccia onesta dai tratti intelligenti, un sorriso consapevole come quello di un bambino. Anche per i domestici, era una persona di casa. Corteggiava Maša. Si rivolgeva a lei scherzosamente: «Non sarebbe per voi una disgrazia se legaste la vostra vita a un uomo anziano, finito, come me, che desidera soltanto star seduto?». La trattava come un giovane, caro compagno: le faceva una quantità di domande, esigendo la più intima sincerità; le dava consigli. Quando sorrideva, tutto il viso gli si irradiava di gioia. Non era un vecchio zio che le dava insegnamenti ma un essere suo pari che aveva per lei amore e timore. Anche Maša aveva amore e timore: ogni suo pensiero era un pensiero di lui; ogni suo sentimento un sentimento di lui.
Maša suonava il piano. A volte lui si sedeva alle sue spalle, cosicché le riusciva invisibile: ma dappertutto – nella mezza oscurità della stanza e in lei stessa – Maša sentiva la sua presenza che le riecheggiava nel cuore. Poi si voltava a guardarlo. La testa di lui prendeva risalto sullo sfondo luminescente della notte. Sedeva sorreggendo il capo con le mani, e teneva fissi su di lei gli occhi splendenti. Sorrideva. Anche lei sorrideva, o addirittura rideva: avrebbe voluto che tutto si fermasse, tanto era esultante per quella cosa indefinibile che stava avvenendo. Tutto era luce: la luce piena della luna pendeva sulla casa. Oppure Maša suonava a lungo per lui, che andava su e giù per la stanza bisbigliando qualcosa. Era una sua abitudine, questa di bisbigliare tra sé. Se lei gli domandava cosa stesse bisbigliando, ogni volta, dopo aver riflettuto un istante, lui rispondeva esattamente dicendo ciò che bisbigliava: di solito versi, o alle volte assurdità puerili. La musica costituiva il loro più caro ed elevato piacere, toccando nuove corde del cuore e quasi rivelando daccapo l’uno all’altro.
Un giorno, Maša guardava Sergej Michàjlovic negli occhi. D’improvviso, qualcosa di strano le accadde: da principio cessò di distinguere gli oggetti intorno a lei, il viso di lui gli scomparve d’innanzi, e soltanto gli occhi le splendevano proprio di contro al suo sguardo; ebbe l’impressione che quegli occhi fossero in lei, tutto le si annebbiò, non vide più nulla, e fu costretta a sbattere le ciglia per strapparsi a quel senso di piacere e di terrore. Un altro giorno il suo cuore, d’improvviso, si mise a battere più forte: la mano, presa da un tremito, si strinse alla mano di lui; un gran calore la invase, i suoi occhi, nella penombra, cercarono il suo sguardo; e tutt’a un tratto sentì che questa paura era amore, un amore possente che non aveva mai conosciuto. Sentì che era tutta di lui, e che era felice del potere che egli aveva nel suo cuore.
Si sposarono. Il giorno del matrimonio egli avanzava adagio, in silenzio, e sul suo viso, che Maša osservava ogni tanto, stava dipinto quello stesso sentimento grave, tra di cordoglio e di gioia, che era diffuso sia nella natura sia nel suo cuore. Poi cominciarono i mesi di quiete solitaria vita in campagna. Quando parlavano, le loro voci squillavano e restavano sospese su di loro nell’immobilità dell’aria, come se fossero soli ad esistere nel bel mezzo del mondo. I sentimenti, le emozioni e la felicità di quei due mesi sarebbero bastati per tutta la vita. Era un tempo uniforme e felice. C’era un egoistico sentimento d’amore fra loro due, un desiderio di ciascuno di essere amato dall’altro, una perpetua, immotivata allegria, una dimenticanza di tutto il mondo esterno. Tutto si ripeteva. Ogni sabato, regolarmente, si lavavano i pianciti di casa e si battevano i tappeti: ogni lunedì veniva celebrato il Te Deum. Le mieiux est l’ennemi du bien, diceva Maša, anticipando una frase di Guerra e pace. Quando scoppiava il temporale, arrivava una lettera, o semplicemente si svegliava, un senso di terrore la invadeva: il terrore era che qualcosa mutasse.
Dopo qualche mese, Maša fu assalita da un desiderio di movimento. Voleva affrontare nuove emozioni. C’erano in lei un eccesso di forze, che non trovava sfogo in quella vita così tranquilla. Si sentiva felice: ma la faceva soffrire il fatto che questa felicità non le costasse nessun sforzo, nessun sacrificio, mentre tanta capacità di sforzo e di sacrificio le urgeva dentro. Pensava: «C’è qualcosa d’altro, per cui soltanto ora ci sono in me le forze». Qualcosa d’altro era necessario: la lotta. Tutto le appariva tedioso e vuoto, mentre aveva voglia di vivere e di muoversi: non sopportava che il tempo le scorresse attraverso. «Io voglio procedere innanzi, diceva, e ogni giorno, ogni ora voglio del nuovo».
Andarono a Pietroburgo. Appena giunti in città, si ridestò in lei un nuovo mondo felice: tanta gioia le si affollò intorno, tanti nuovi interessi le sorsero innanzi, che d’un tratto, anche se inconsciamente, rinnegò il passato. «Eccola qui, la vera vita! E cos’altro verrà, ancora?», diceva tra sé. Sentirsi oggetto dell’attenzione del bel mondo, le faceva piacere e accontentava il suo amor proprio. Finché una sera, facendo precipitare l’edificio della «felicità familiare», Maša litigò con Sergej. Ebbe la sensazione che un vero e proprio abisso si aprisse tra lei e il marito.
Da quel giorno avvenne un mutamento radicale nelle loro vite e nei loro rapporti. Non stavano più così bene da soli, come una volta. Non ci fu più lo sguardo profondo di Sergej, che un tempo la turbava e le dava gioia. Avveniva di rado, addirittura, che si vedessero. La vita di società si impadronì completamente di lei. In questo modo passarono tre anni. Marito e moglie tornarono nella vecchia casa di Pokrovskoje: essa riprese vita; ma non riprese vita ciò che vi aveva vissuto in quei primi mesi di felicità matrimoniale. Erano soli l’uno di fronte all’altro. Tutto – le stanze, il pianoforte, la natura – era, in apparenza, come una volta, ma ogni cosa aveva subito un tremendo, funereo mutamento. Nell’intimo di Maša ogni cosa era sconnessa, manchevole, e c’era un continuo bisogno di qualche altra cosa.
Un giorno, Maša posò gli sguardi sul marito, e sentì una nuova leggerezza in se stessa. Ebbe limpida e calma la visione che il sentimento di quel tempo era passato senza possibilità di ritorno come il tempo stesso, e che tornare indietro non solo era impossibile, ma sarebbe stato penoso. Eppure qualcosa – si convinse – era rimasto. «Da quel giorno – così le ultime, bellissime righe della Felicità familiare – ebbe termine il romanzo tra me e mio marito: l’antico sentimento divenne un prezioso, irrevocabile ricordo, mentre un nuovo sentimento d’amore per i figli e per il padre dei miei figli dava principio a una seconda, sebbene ormai diversissima felicità di vita, che ancora non ho finito di sperimentare nel momento in cui scrivo».