Corriere della Sera, 14 dicembre 2015
Il primo giorno da condannato di Alberto Stasi
In piedi, occhi bassi e mani in tasca. Alberto Stasi comincia dal suo ultimo momento di speranza, il punto esatto in cui la parola «innocente» sembrava ancora possibile. «Non me l’aspettavo. Giuro che proprio non me l’aspettavo. Anche il procuratore generale aveva chiesto l’assoluzione. Io non ho ucciso Chiara, ero tranquillo...». Poi il mondo che si capovolge: «Quando mi hanno detto della condanna ero dall’avvocato. Non sono nemmeno passato da casa a prendere il necessario. Mi sono immaginato la ressa di giornalisti davanti al cancello, il muro di telecamere, il solito clamore. E allora ho preferito venire qui direttamente».
Qui. Nel carcere di Bollate, cella 315 del reparto I, terzo piano, luogo di partenza dei suoi 16 anni di condanna per aver ucciso Chiara Poggi (la sua fidanzata) la mattina del 13 agosto 2007.
Davanti al consigliere regionale che alle undici passa a trovarlo c’è un ragazzo «abbattuto e dimesso». Faccia stanca di chi ha dormito poco o nulla. «Com’è andata la prima notte?» chiede il suo interlocutore. E lui: «Veramente non è la prima volta, in carcere c’ero già stato ma non mi ricordavo com’era, sono passati più di otto anni... però anche allora mi avevano rilasciato al quinto giorno, avevano analizzato il sangue (era il Dna di Chiara trovato sul pedale della sua bicicletta, ndr ) e alla fine avevano capito di avere davanti un innocente». Il chiodo batte sempre sullo stesso punto: sono innocente, questa sentenza è ingiusta.
Nel penitenziario-modello di Bollate le celle non sono piccole. Stasi condivide la sua con altri tre detenuti, un italiano e due montenegrini. Quand’è arrivato, sabato, ha chiesto a tutti un unico favore: «Vorrei non guardare in televisione i programmi che parlano di me. Non voglio vederne nessuno. Si può?». Quasi una preghiera. Alberto non vuole sapere che cosa dicono di lui oltre le barriere del carcere, non ha più importanza, non vale più neanche la pena di arrabbiarsi per le interpretazioni fuori luogo, per un titolo sbagliato, per il saccente di turno che parla di lui e del processo senza aver mai letto nessuna carta. «Ve lo chiedo per favore» ha implorato i nuovi compagni delle sue giornate. E loro hanno capito, hanno evitato qualunque notizia o trasmissione sul caso Garlasco.
«Tua mamma?» chiede il consigliere cambiando argomento. «L’ho chiamata, la vedrò domani (oggi, ndr)». Pausa. Nodo in gola e poche altre parole, «la mamma ora è sola...». Il politico regionale lo vede in difficoltà, così emozionato da essere sul punto di piangere. E allora cambia di nuovo la direzione del discorso. Gli chiede del futuro, di come immagina tutto quel tempo dietro le sbarre. «Devo ancora capire, non riesco a credere di essere qui» dice. «Ero convinto che sarebbe finita bene e non ho avuto il tempo di pensarci né di preparare niente, domani la mamma mi porterà un po’ di cose, magari vado in biblioteca a prendere un libro, vedrò come devo organizzarmi, cosa fare...».
La vita in carcere è una sequenza di azioni che si ripetono identiche ogni santo giorno, di orari sempre uguali per fare questo o quello. Si pranza alle 11, si cena alle 17, le celle sono aperte dalle otto del mattino alle otto di sera. Si può passeggiare nei corridoi, andare in palestra, in biblioteca, appunto. Ma ieri mattina era troppo presto per fare qualsiasi cosa che non fosse parlare, raccontare, sfogarsi. Consegnare a qualunque sconosciuto fosse arrivato quella parola che Alberto ripete da sempre: innocente, io sono innocente.
Prima di costituirsi, sabato, aveva affidato all’avvocatessa Giada Bocellari (che lo aveva accompagnato fino al portone del carcere) un saluto a «tutti quelli che si sono occupati umanamente e professionalmente di questa triste vicenda». «Grazie, vi voglio bene» aveva chiesto di far sapere. Poi lei aveva seguito la sagoma di quel ragazzo fino a vederla sparire dietro il portone. Per i prossimi 16 anni.