Corriere della Sera, 14 dicembre 2015
Le banche italiane hanno crediti inesigibili pari a 198 milioni di euro. Come si risolve questo problema?
Barack Obama era appena in carica nel 2009, quando tra Tim Geithner e Larry Summers esplose un dissidio simile a quello aperto oggi fra l’Italia e la Commissione Ue. Allora dall’inizio della crisi erano passati sei mesi, oggi sette anni. Ma Geithner, segretario al Tesoro, aveva una proposta che ricorda in certi aspetti quella attuale del governo di Roma: stimare il valore effettivo dei crediti in difficoltà nei bilanci delle banche in base alla capacità dei debitori di pagarne almeno una parte, prima o poi. A quel punto si sarebbero potute misurare le perdite degli istituti, dunque le esigenze di capitale per colmarle.
Summers, consigliere di Obama, rispondeva con la stessa obiezione che oggi la Commissione presenta all’Italia. Il suo era l’approccio prevalente fra i fondi speculativi di Wall Street, anche se probabilmente nessun funzionario di Bruxelles oggi sospetta di attenersi ai principi di uno hedge fund. Secondo Summers, il valore di un credito deteriorato tra qualche anno non conta niente. Conta solo il prezzo di mercato sul momento: se una banca oggi può vendere un credito ad appena il 10% del valore originario, quello è il prezzo “vero”, e la perdita sarà del 90%.
Questo punto tra poco deciderà il futuro del sistema bancario italiano, il rischio di nuovi traumi per i risparmiatori e le possibilità di ripresa del Paese. Allo scorso ottobre le banche italiane avevano “sofferenze” (crediti inesigibili) per 198,9 miliardi, secondo la Banca d’Italia. A fronte di questa montagna di prestiti in default, le banche hanno accantonato 112 miliardi per compensare le perdite previste. Significa che in media stimano di poter recuperare quasi il 44% di quei crediti, magari prendendo possesso degli immobili dei debitori.
Probabilmente non è una stima del tutto realistica – le perdite saranno maggiori – anche se è più credibile del 52% che le banche presentavano nel 2012. Ma questi numeri sono tremendamente importanti per l’Italia oggi, perché decideranno della possibilità di liberare gli istituti di quell’eredità di sofferenze e permettere loro di alimentare la ripresa. Per farlo, il governo da mesi propone a Bruxelles varie versioni di una soluzione: creare una società con qualche forma di garanzia pubblica, che compri i crediti deteriorati dalle banche e li gestisca fino a realizzarne il valore residuo; la presenza della garanzia sulle perdite dovrebbe permettere a questa società (la “bad bank”) di comprare quegli attivi delle banche a un prezzo non troppo inferiore al 44% oggi stimato. La Commissione, sulla linea Summers, non è d’accordo. Il prezzo medio di mercato a cui oggi fondi internazionali comprano le “sofferenze” delle banche italiane è di circa il 20% del valore originario. Qualunque valutazione più generosa da parte del compratore, permessa da garanzie pubbliche sulle sue eventuali perdite, sarebbe “aiuto di Stato” alle banche. A quel punto una lettura stringente della legge europea impone di colpire azionisti, obbligazionisti e depositanti.
Il problema è qui. Lo scarto fra i prezzi di mercato delle sofferenze (20%) e la stima del loro valore reale secondo le banche (44%) è di circa 40 miliardi. Seguire la via di Bruxelles e vendere agli attuali prezzi di mercati aprirebbe un buco enorme nel capitale dell’intero sistema finanziario italiano, con necessità di aiuti pubblici e quindi nuovi traumi per i risparmiatori coinvolti. È per questo che probabilmente non succederà granché: non ci sarà pulizia dei bilanci, né rapida ripresa del credito, e potrebbero tornare crisi localizzate di banche di provincia affossate dalle perdite sui crediti che si svaluteranno sempre di più. Solo una vera ripresa può impedire un “decennio perduto” alla giapponese, con tanti piccoli istituti sottocapitalizzati ma incapaci di affrontare i loro problemi. Eppure in America, alla fine, prevalse Geithner su Summers. Una banca, dopotutto, non si gestisce mica con le regole di uno hedge fund.