Corriere della Sera, 13 dicembre 2015
Le obbligazioni subordinate, ultimo frutto avvelenato dell’enorme debito pubblico italiano
Prima del mese scorso, era successo solo nel 1921. L’ultima volta prima di questa in cui i creditori di una banca italiana si erano visti azzerare i propri titoli, la prima guerra mondiale era appena finita. La Banca italiana di sconto fallì perché l’Ansaldo, il suo solo grande debitore, era stato messo in ginocchio dalla fine delle commesse belliche. L’anno dopo un neolaureato di nome Piero Sraffa pubblicò sul Guardian un’analisi devastante di quell’operazione, tutta dati e fatti, che gli fruttò l’ira del neo-premier di allora, Benito Mussolini, e un esilio a Cambridge che sarebbe durato tutta la vita.
Non ci sarà un altro Sraffa, stavolta. Non solo perché economisti del suo genio non nascono spesso né perché l’intolleranza del fascismo ormai ce la siamo messa alle spalle (si spera). Se non ci sarà un altro Sraffa, è anche perché l’azzeramento delle obbligazioni di quattro piccole banche arrivata per decreto il 22 novembre è il punto di arrivo di una storia diversa. Di pace, non di guerra. Quella di oggi è una vicenda che rivela cosa può fare un debito pubblico cronicamente eccessivo a un Paese. Diventa una sottile, persistente tossina che ne deforma la struttura finanziaria, i costumi, le responsabilità pubbliche e i comportamenti privati.
Il punto di partenza è in un golfo aperto, alla fine del 2010. Era quello fra ciò che le banche italiane raccoglievano dai correntisti, e quanto invece prestavano alle famiglie, alle imprese o alle amministrazioni. Fra questi due valori c’era uno scarto eccessivo: le banche si finanziavano grazie ai depositi della clientela per una somma notevolmente inferiore a quanto poi impiegavano nell’economia. Alla fine del 2010 la raccolta di risparmio agli sportelli sfiorava i 1.400 miliardi di euro, mentre i prestiti viaggiavano appena sotto i duemila miliardi. Le banche dovevano trovare dunque quasi 600 miliardi in più per funzionare e questo golfo veniva colmato tramite prestiti a breve termine da grandi istituti esteri: dalla City di Londra, Parigi, Francoforte.
Qui il debito pubblico entra in scena, bloccando l’ingranaggio. A metà del 2011 si scatena la crisi finanziaria, gli investitori internazionali dubitano che il governo possa evitare l’insolvenza e smettono di comprare titoli di Stato italiani. Anche le banche del Paese rischiano di soffocare, perché nel frattempo hanno già circa 200 miliardi di titoli del Tesoro nei loro bilanci, dunque vengono considerate vulnerabili a un default dello Stato. Per loro i prestiti dall’estero si interrompono, però quel golfo tra raccolta e impieghi resta aperto e rischia di provocare un infarto a vari istituti di credito.
Il coinvolgimento più intenso delle famiglie italiane nei rischi delle banche, specie le più provinciali, parte da qui. Con i mercati internazionali per loro ormai chiusi, centinaia di istituti iniziano a collocare con foga le proprie obbligazioni alla clientela.
Hanno urgenza di finanziarsi in qualche modo, per colmare almeno parte di quel golfo aperto fra depositi e impieghi. Secondo i dati ufficiali, le obbligazioni bancarie nei bilanci delle famiglie italiane esplodono dal già enorme livello di 271 miliardi di euro del 2005 fino a 372 miliardi del 2011. Si arriva al punto che i comuni risparmiatori italiani hanno una quantità di titoli di debito delle banche quasi doppia rispetto ai titoli di Stato. Non siamo più il popolo dei Btp. Diventiamo un popolo di obbligazionisti bancari. Nel 2013 i bond emessi dal settore creditizio rappresentano il 99,7% di tutte le obbligazioni private in cui hanno investito le famiglie italiane: quell’impiego ne scaccia molti altri, magari più produttivi.
Accade per molte ragioni, sempre influenzate dalla tossina del debito pubblico. Una è fiscale: una vecchia norma (ora abolita) cercava di spingere gli italiani a comprare titoli di Stato tassando i guadagni su normali certificati di deposito, depositi a termine o a vista in maniera più esosa rispetto a tutti i bond. La risposta nella società italiana è stata l’esplosione di bond bancari nei bilanci delle famiglie. Anche le meno finanziariamente istruite, che in Italia purtroppo sono la maggioranza. Molte piccole banche del resto ritenevano di non avere scelta, perché spesso gli investitori professionali non avrebbero comprato gli stessi titoli alle stesse condizioni.
Ci si può chiedere perché la Consob, l’autorità di controllo sul risparmio, non abbia impedito questa concentrazione del rischio. Ed è difficile resistere alla tentazione di pensare che non ci fosse molta voglia di contrastare aziende divenute vitali per la tenuta finanziaria dello Stato. Durante la crisi, mentre si finanziavano presso le famiglie (e presso la Banca centrale europea), le banche erano diventate decisive nel finanziare a loro volta il Tesoro: il loro portafoglio di titoli di Stato è salito da 108 miliardi del 2008 a 403 di due mesi fa.
Così il debito pubblico ha distorto i comportamenti lungo tutto il sistema. Certo fino all’agosto del 2013 non esistevano le regole europee che impongono di colpire i creditori in caso di aiuto di Stato alle banche (dopo sì, anche se in Italia se n’è parlato poco). E molte cose oggi sono migliorate.
Le banche hanno quasi smesso di emettere bond, perché godono di abbondante liquidità dalla Bce. Le obbligazioni bancarie in mano alle famiglie sono più che dimezzate; lo è anche la massa di titoli subordinati, i più a rischio, che ormai non supera i 30 miliardi di euro. Nel frattempo il golfo tra raccolta e impieghi degli istituti si è ristretto e – soprattutto – moltissime banche sono davvero solide. Specie fra le grandi.
Ma chi pensa che un debito alto si può vivere, perché in fondo non fa male, può rileggere la storia. A partire dal 1922.