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 2015  dicembre 13 Domenica calendario

L’accordo sul clima, un esito soprattutto diplomatico, 29 articoli limati parola per parola

Forse, nell’esaltazione del momento, eravamo arrivati a sperare in un finale più dirompente, in misure straordinarie che avrebbero modificato all’improvviso anche le nostre abitudini, e in chissà cos’altro. Tale era l’enfasi che avevamo messo in molti sull’urgenza e la gravità della crisi climatica, che nella mattina di ieri l’aspettativa a Parigi era simile a quella di certi risultati elettorali decisivi. Ma la Cop21 è stata, dopotutto, un evento diplomatico e diplomatico, nell’accezione di «cauto», è stato anche il suo esito.
È vero, il documento esiste, è stato approvato, ventinove articoli limati parola per parola – non era affatto scontato. L’accordo contiene all’incirca ciò che si desiderava, l’impegno a contenere l’aumento della temperatura media del pianeta entro un grado e mezzo dall’epoca preindustriale. E nell’articolo 4.1, il più significativo e dibattuto, si intravede anche la volontà ambiziosa di abbandonare del tutto o quasi l’impiego di combustibili fossili dopo il 2050 e di raggiungere l’equilibrio perfetto tra emissione e assorbimento di gas serra. Ma è altrettanto vero che il testo messo a punto a Parigi soffre di una certa opacità, quasi di una forma di timidezza. Nel fatidico articolo 4.1, per esempio, viene detto che i Paesi dovranno raggiungere il loro picco di emissioni «il prima possibile», senza però stabilire quando, e che da lì in avanti dovranno ridurle rapidamente, senza però specificare quanto. Da nessuna parte compaiono indicazioni effettive su come i Paesi dovranno modificare il proprio impatto. Ciò che si sa, tuttavia, è che gli impegni presentati alla conferenza dai singoli Stati sono insufficienti, e di parecchio. Allo stato attuale, permetterebbero un aumento della temperatura media globale di almeno tre gradi. Tra i commenti illustri, qualche trionfalismo c’è stato: «L’accordo di Parigi è un punto di svolta per l’umanità» (Michael Brune, Sierra Club), «mette l’industria dei combustibili fo ssili dalla parte sbagliata della storia» (Kumi Naidoo, Greenpeace); così come sono emersi, qua e là, segnali di scontentezza. L’accordo sarebbe solo «una promessa vaga» per i Paesi più poveri e vulnerabili (Helen Szoke, Oxfam) e non rifletterebbe «la migliore scienza disponibile» (Steffen Kallbekken, Cicero). La critica più severa è arrivata dai rappresentanti dei popoli indigeni che si sono riuniti ieri davanti a Notre-Dame per una preghiera del mattino, portavano lo sdegno di chi si trova sul fronte del cambiamento climatico, al Circolo Polare, sulle isole più remote del Pacifico e nelle grandi pianure americane. Ma a prevalere decisamente è stata una soddisfazione tiepida, un po’ guardinga, insieme – parrebbe – alla volontà deliberata di guardare il bicchiere mezzo pieno. D’altra parte, il piano era ambizioso. Per accorgersi della quantità di istanze da considerare alla Cop21 era sufficiente girare fra i padiglioni di Le Bourget nei giorni scorsi. Ci s’imbatteva in delegazioni del Benin e della Norvegia, di Cina e Arabia Saudita, in attivisti irriducibili e rappresentanti di minoranze e comunità minacciate ovunque nel pianeta (tra cui un nativo americano con tanto di copricapo piumato che ogni pochi passi veniva fermato da qualcuno per un selfie).
Alla fine, sebbene senza esultare, si può dire che un traguardo sia stato raggiunto, una condivisione ampia sulle circostanze in atto e sulle aspirazioni. L’accordo di Parigi sancisce quanto meno la fine di una certa miopia perniciosa sul clima e al contempo indica una rotta. L’implementazione resta tutta da fare. Gli Stati dovranno rivedere al rialzo i propri obiettivi di riduzione ogni cinque anni, a partire dal 2023. È facile temere che la politica delle singole nazioni non si riveli all’altezza della nobiltà sfoggiata a Parigi. E, dopo gli scenari catastrofici che ci sono stati presentati nelle ultime settimane, un accordo vincolante ma anche così duttile come quello raggiunto alla Cop21 può sembrarci un raggiro. Eppure, per il mondo intero, per tutta la sua inconciliabile diversità, non è poi così poco.