La Gazzetta dello Sport, 13 dicembre 2015
Alberto Stasi, quello dell’omicidio di Garlasco, è entrato ieri in carcere, dove resterà, più o meno, fino al 2030
Alberto Stasi, quello dell’omicidio di Garlasco, è entrato ieri in carcere, dove resterà, più o meno, fino al 2030. Per ora è rinchiuso a Bollate. Stasi ha 33 anni e tornerà libero quando ne avrà poco meno di cinquanta. La Cassazione ha infatti confermato la sentenza di condanna a 16 anni emessa nel secondo giudizio d’appello (in primo grado e nel primo appello era stato assolto). Questa pronuncia definitiva non sana in realtà i dubbi intorno alla vicenda. E non conta, da questo punto di vista, che la signora Rita, mamma della vittima Chiara Poggi, dica: «Finalmente giustizia è fatta».
• Forse sarà bene riassumere i termini della vicenda.
È la mattina del 13 agosto del 2007. Una bella giornata di sole. Tra pochi giorni la giovane Chiara Poggi, di 26 anni, partirà per le vacanze col suo fidanzato Alberto Stasi, anche lui ventiseienne. Ma qualcuno bussa alla sua porta di via Pascoli in Garlasco (Pavia) e Chiara gli apre tranquilla, benché ancora in pigiama. L’ignoto che sta dall’altra parte le salta subito addosso, le dà dei cazzotti e soprattutto prende a colpirla con «un corpo contundente metallico non identificabile», che ha «due terminali», uno «spigolo molto netto» e «una superficie battente stretta». Probabilmente una piccozza da montagna o da giardinaggio, mai ritrovata. Una quindicina di colpi, l’ultimo dei quali alla tempia sinistra nell’area «encefalo-parieto-occipitale». Cranio sfondato, cervello sparpagliato, inondazione di sangue. L’assassino si sarebbe fermato a un certo punto della mattanza e, prendendo per i piedi il corpo della ragazza, lo avrebbe trascinato fino al telefono. In quel momento Chiara era ancora viva. Dopo averla finita, il killer ha trascinato ancora il cadavere fino alle scale che portavano alla tavernetta e l’avrebbe buttato di sotto, dove poi il corpo è stato effettivamente ritrovato. Questa la dinamica del delitto.
• E Stasi?
Stasi disse di aver chiamato al telefono la fidanzata cinque volte e alla fine, non avendo mai avuto risposta, di essere andato in via Pascoli, aver trovato la porta aperta, essere entrato, aver girovagato un po’ e aver trovato infine il corpo in fondo alle scale della tavernetta. Sconvolto, sarebbe corso dai carabinieri a denunciare il massacro.
• Dica adesso dei processi.
Indagini mal fatte, e che vennero ripetute troppe volte. Ipotesi preconcette che non si sono mai inverate in una ricostruzione solidamente provata. Manca il movente, manca l’arma del delitto, due buchi capitali in qualunque corte di giustizia. Il movente ipotizzato sarebbe questo: nel computer di Stasi c’erano settemila immagini pedopornografiche. L’accusa ha quindi pensato che Chiara se ne fosse accorta e che la sera prima si fosse scagliata per questo contro il fidanzato. Alberto, il giorno dopo, l’avrebbe ammazzata anche per impedirle di rendere noto il suo vizio. Potrebbe essere. Il fatto è che su questa ricostruzione non c’è il minimo riscontro. Allo stato dei fatti è pura fantasia.
• Come si giustifica allora la condanna a 16 anni?
I punti forti dell’accusa sono questi: le scarpe di Stasi erano pulite, e questo non sarebbe stato possibile se avesse davvero camminato nella casa di via Pascoli dopo il delitto. Il pavimento infatti era un lago di sangue. Stasi disse poi che Chiara era pallida, e invece aveva la faccia coperta di sangue, dato che era rotolata per le scale a testa in giù. Infine nel sapone del bagno c’erano le tracce di due soli dna, quello di Chiara e quello di Stasi. «Dopo il delitto» ha sostenuto l’accusa «lui è andato a lavarsi le mani». La difesa ha sempre controbattuto che le scarpe avrebbero benissimo potuto non sporcarsi e che anche se si fossero sporcate i frammenti di sangue secco si sarebbero potuti disperdere sulla via del ritorno. Quanto alla saponetta, Alberto avrebbe potuto benissimo lasciare le tracce del suo dna la sera prima.
• Se Alberto è davvero l’assassino, 16 anni non sono pochi?
È uno degli argomenti che nella sua arringa davanti alla Cassazione ha usato il procuratore generale, Oscar Cedrangolo. Badi che il procuratore generale è il rappresentante della pubblica accusa, cioè colui che avrebbe dovuto difendere la sentenza di condanna. Ebbene, piuttosto clamorosamente, il procuratore generale ha detto che la sentenza andava invece annullata perché basata su «dati non certi», «logica non usata», «accertamenti che non si sono dimostrati affidabili», «inaccettabile alterazione delle risultanze processuali». E, soprattutto, l’appello «s’è industriato a costruire un movente». Infine, i 16 anni apparivano incongrui in ogni caso: se Alberto era innocente andava assolto, e se colpevole doveva restare in galera 30 anni. I magistrati della Cassazione hanno preferito farla finita e hanno respinto l’idea di rifare per la terza volta il processo d’appello. Così il caso Garlasco è stato chiuso per sempre.