il Fatto Quotidiano, 12 dicembre 2015
Sui Puritani del Bellini
Ho affermato più volte non esser stata la morte del trentacinquenne Mozart la più gran sventura della storia della musica. Egli aveva in gran parte dato conto di sé, quand’anche grandi sviluppi ancor potessero da lui attendersi. Ma Schubert morì nel 1828 a trentun anni quando, a onta d’una produzione copiosa e sublime, la morte di Beethoven gli aveva dato il coraggio d’assumere a suo modo la maniera grande ch’era stata del Sommo: e l’ultimo anno di vita vide sorgere un incredibile numero di capolavori i quali non sono il disperato canto di un morituro ma l’affermazione imperiosa di chi sa di essere ora l’Orfeo tedesco: come principiava a venir riconosciuto. Meravigliosamente disse Franz Grillparzer ai funerali: “La terra seppellisce un ricco tesoro ma ancor più grandi speranze.”
Questo medesimo epitaffio vale per Vincenzo Bellini che se ne andò, non per avvelenamento come pur s’è voluto, ma per infezione intestinale, il 23 settembre 1835 a trentaquattro anni. La sua personalità è dissimile da quella di Schubert se non forse per una tardiva consapevolezza della propria grandezza; il suo melos con quello di Schubert ha tratti affini; e la morte lo coglie all’apice della fama quando la maniera grande, già affermata colla Norma, viene, ma in forme assai diverse, asseverata coi Puritani, rappresentati a Parigi il 24 gennaio del medesimo anno.
È dunque la scomparsa di Bellini l’altra grande sventura della storia musicale. Nel Novecento vi si può paragonare quella di Alban Berg: ben vero questi aveva cinquant’anni ma la non compiuta Lulu fa comprendere i capolavori che lo attendevano. Berg, viennese come Schubert, può anch’egli a lui esser per la qualità del melos accostato: come a Bellini. Se ai tre aggiungiamo Chopin, che del melos di Bellini è assai tributario, ecco un quartetto dei sommi lirici capaci tutti della maniera grande.
La vigente ignoranza musicale vede in Bellini solo il lirico e addirittura, Dio liberi, un compositore del cosiddetto Bel Canto. Egli scrive meravigliosamente per la voce: ma a grado a grado, fino alla Norma, conta di lui la forte qualità tragica del “declamato”, qualcosa di rivoluzionario. Per giudicare un’interprete del capolavoro non si deve partire da Casta diva ma da Sediziose voci e In mia mano alfin tu sei, che richiedono il sommo soprano drammatico di agilità.
I Puritani, lasciatisi alle spalle un neoclassicismo in parte anticipatore di Wagner, sono un progetto drammatico ove Bellini affronta in modo definitivo un Romanticismo cavalleresco che attenderà Verdi per esser ulteriormente sviluppato: solo che ci si domanda quale sarebbe stato il destino di Verdi Bellini vivo.
E la partitura dei Puritani manifesta una cura per la scrittura orchestrale nuova per l’Autore, sempre più deciso ad affermarsi; oltre che una fantasia armonica e melodica degna di un sommo. Il capolavoro ha come la Norma avuto accidentate vicende editoriali; una lezione autentica se n’è avuta di rado e solo adesso (2013) ch’è uscita la meravigliosa edizione critica curata da Fabrizio Della Seta la parola dell’Autore può contemplarsi sia nell’esattezza del dettato che nell’integralità.
Questa edizione si rappresenta adesso al Massimo Bellini di Catania. Nei Puritani il tenore conta più del soprano, ed è questi l’angelico Shalva Mukeria, dall’emissione omogenea, dagli acuti e dallo “smorzature” di qualità. Elvira è la diligente Laura Giordano mentre della compagnia va segnalato in ispecie il bravissimo basso Dario Russo. L’ottima regia è di Francesco Esposito; e sul podio ho fatto la conoscenza di Fabrizio M. Carminati, nato nel 1957. Un direttore competente, attento, preciso, che dall’orchestra ottiene bel suono e giuste dinamiche; dal gesto signorilmente parco e (oggi cosa quasi incredibile) dalla bocca chiusa quand’è sul podio. Gli ho chiesto di dove fosse e lui: “Di Bergamo. Ho assimilato gl’insegnamenti del maestro Gavazzeni.”. Io: “Per fortuna non si vede.”