MilanoFinanza, 12 dicembre 2015
La tempesta nel barile. Chi vince e chi perde tra Arabia Saudita, Usa, Russia e Iran
Consumi, bilancia commerciale, strategie finanziarie e geopolitica: quando il petrolio schizza verso l’alto o precipita, tutto si tiene oppure si sfascia, a seconda che si tratti di Paesi consumatori o produttori. Gli Usa fanno caso a sé. Intanto non si sono fatti prendere dalla follia della deflazione competitiva, come l’Europa, che è stata costretta a svalutare, con la Bce che immette liquidità a manetta, per tenere la dinamica dei prezzi sopra lo zero.
Per l’economia europea, il crollo dei prezzi del petrolio è una catastrofe. Le famiglie americane, invece, ringraziano: i primi sono gli automobilisti che fanno il pieno all’auto con meno di 2 dollari al gallone, il prezzo più basso da 12 anni a questa parte. Un anno fa, sempre per il Thanksgiving, servivano 3 dollari. Anche la bilancia commerciale statunitense migliora. Un beneficio altrettanto rilevante viene dall’aumento della produzione energetica: nel 2014, gli Usa hanno sopravanzato l’Arabia Saudita come primo produttore con 13,9 milioni di barili al giorno rispetto a 11,6 milioni, seguiti dalla Russia con 10,8 milioni. Per merito del fracking, gli Usa si sono classificati anche primi produttori di gas naturale con 719 miliardi di metri cubi, seguiti dalla Russia con 631 miliardi e poi dall’Iran e dal Qatar con 170 miliardi ciascuno.
Dalla combinazione di prezzi internazionali in calo e maggior produzione interna, è derivata la riduzione della bolletta energetica e del peso dell’import petrolifero. A ottobre l’esborso è stato di 12 miliardi di dollari, pari al 10% del totale del deficit commerciale, mentre aveva pesato per non meno del 66% nel marzo 2011. Nei dieci mesi di quest’anno, il deficit petrolifero americano è stato di appena 71 miliardi di dollari, rispetto ai 189 miliardi dell’intero 2014, e agli astronomici 386 miliardi di dollari del 2008. La bolletta energetica americana si è ridotta di oltre due terzi. Le importazioni sono passate da 453 miliardi di dollari nel 2008 a 156 miliardi nei dieci mesi di quest’anno. Il calo dei prezzi internazionali del petrolio in dollari ha più che bilanciato l’apprezzamento reale del biglietto verde: l’indice, uguale a 100 nel gennaio 2011, è arrivato a 129,6 lo scorso ottobre: +30% in meno di due anni. La rivalutazione del dollaro sta facendo nuovamente peggiorare il saldo commerciale: nei 12 mesi terminati a ottobre, il deficit è infatti aumentato del 5,3%, per via di una contrazione dell’export molto più veloce (-4,3%) di quella dell’import (-2,6).
La flessione della domanda mondiale, combinata a un apprezzamento del dollaro, ha avuto sull’export americano un impatto negativo superiore a quello positivo sull’import della riduzione dei prezzi dei prodotti petroliferi combinata a una maggiore produzione interna.
Livelli bassi dei prezzi del petrolio, assieme a una elevata produzione energetica interna, sembrano essere importanti per la politica monetaria. La posizione netta degli Usa verso l’estero è molto peggiorata, passando da un saldo negativo di 1.985 miliardi di dollari a fine 2007 a -7.020 miliardi a fine 2014. Rispetto a fine 2013, il deficit si è ampliato di ulteriori 1,692 miliardi. Nel corso del 2015, poi, l’aumento degli investimenti esteri in Treasury bond è stato assai fiacco: a settembre, il totale sottoscritto era di 6.101 miliardi di dollari rispetto ai 6.069 di settembre 2014. Ha pesato lo scarso appeal dei bassi tassi di interesse, nella prospettiva di un loro aumento. Quest’ultimo farà affluire nuovi capitali, facilitando il finanziamento del disavanzo commerciale e del deficit federale, ma rafforzerebbe la divisa americana determinando un impatto negativo sul pil in quanto favorisce l’import e penalizza l’export. Gli Usa non sembrano poter fare a meno di bassi prezzi del petrolio e di un elevato grado di autosufficienza energetica. Il meccanismo dei petrodollari, che pure aveva rappresentato per molti anni una fonte sostanziosa di finanziamento del deficit federale americano e un importante sostegno alle quotazioni di Wall Street, sembra essersi inceppato. I bassi prezzi del petrolio riducono molto la capacità dei Paesi produttori di accumulare risorse finanziarie nette dopo aver coperto le spese interne: non riescono più ad estrarre dalle economie reali dei Paesi consumatori un surplus di risorse in dollari da impiegare sui mercati finanziari. Inoltre, le transazioni petrolifere tra Russia e Cina tendono a essere regolate nelle rispettive valute, mentre il dollaro resta come riferimento di prezzo. Taluni debiti russi in dollari vengono saldati vendendo gli yuan incassati come pagamento delle forniture alla Cina. Quest’ultima, approfittando dei prezzi convenienti, aumenta le riserve petrolifere, agevolando ulteriormente la Russia nel fronteggiare il calo dei proventi e le sanzioni occidentali conseguenti all’annessione della Crimea. All’opposto, a fine ottobre il Congresso americano si è orientato a ridurre del 40% le riserve nel prossimo decennio, vendendo 266 milioni di barili per finanziare una serie di spese federali. Questa mossa, basata sulla ridotta dipendenza energetica, aumenterà la pressione al ribasso sui prezzi.
Nella competizione geoeconomica, già da un anno l’Arabia Saudita mantiene ferma la sua produzione per non perdere quote di mercato, anche a costo di far scendere in continuazione il prezzo del petrolio per via dell’eccesso di offerta. Questa posizione viene considerata come antagonista dello shale-gas americano, essendo finalizzata a provocare la progressiva chiusura di questi pozzi che sono redditizi solo a prezzi molto più elevati di quelli attuali. E in effetti, compaiono articoli sempre più allarmati circa il numero crescente di chiusure e di zombie company che sarebbero in grado solo di ripagare gli interessi sui debiti ma non di procedere con la produzione. Il paradosso è rappresentato dalla difficolà di interrompere i progetti di nuove trivellazioni, per limitarsi allo sfruttamento dei pozzi esistenti, poiché la produttività di questi ultimi cala in modo straordinariamente veloce, anche del 90%, dopo il primo anno di attività. Alle dozzine di fallimenti di queste compagnie va aggiunta la recente riduzione della produzione americana di petrolio: la Iea ha stimato che a novembre è calata di 60 mila barili al giorno rispetto al mese precedente. Il calo dei prezzi del petrolio comincia quindi a incidere sull’offerta, anche se si tratta di eventi finora marginali, ininfluenti rispetto agli investimenti enormi che negli scorsi anni sono stati effettuati nella ricerca, nella capacità di produzione e nel trasporto, attraverso nuove pipeline e petroliere. Secondo Goldman Sachs si potrebbe ripetere un nuovo lungo ciclo di discesa dei prezzi del petrolio, analogo a quello che iniziò nel 1980 quando il petrolio aveva toccato i 36 dollari per concludersi solo alla fine del 1988 quando scese a 14 dollari. È esattamente il periodo che va dall’ingresso delle truppe sovietiche in Afghanistan all’inizio della disgregazione dell’Urss sotto Gorbachev, quasi che la caduta del prezzo del petrolio sia stata fatale, più del sostegno americano ai mujaeddin.
Anche oggi la volontà dell’Arabia Saudita di mantenere inalterati i livelli di produzione sembra rispondere a ragioni geopolitiche, nell’ambito dello scontro tra sunniti e sciiti in atto: per un verso rende più difficile la posizione economica dell’Iran e il suo reingresso sul mercato petrolifero dopo la cessazione delle sanzioni, e per l’altro mantiene elevata la pressione sui ricavi della Russia che è già soggetta alle sanzioni occidentali e che a sua volta difende in Siria il presidente Assad. Gli Usa, a loro volta, osteggiano da tempo una ulteriore dipendenza energetica dell’Europa dalla Russia. Alcuni regimi politici, di impronta marxista e antiamericana come quello venezuelano, sono già stati messi alle corde dal crollo del prezzo del petrolio. Il Brasile, prima ubriacato dall’afflusso di investimenti esteri, ora è in crisi profonda. La nuova presidenza dell’Argentina ha già riaperto canali di dialogo con gli investitori americani per pagare i debiti del default del 2001. Con il petrolio, la guerra si fa sui prezzi: le quantità sono lo strumento per determinarli. Che vadano alle stelle o che precipitino non fa differenza: sono shock destabilizzanti. L’Europa ancora una volta sta a guardare: comprerà da chi vince.