Libero, 12 dicembre 2015
Nuovi test del dna al processo Yara (ma fatti con kit scaduti)
Claudio Salvagni è sarcastico: «Ma come? Questa traccia così pura e meravigliosa dello slip, fino a ieri risultava esaminata solo quattro volte. Oggi, con i nuovi dati presentati, ci risultano 18 amplificazioni! Non può essere consentito, è una grave lesione del diritto della difesa». Letizia Ruggeri è algida: «Non è possibile configurare nessuna inutilizzabilità dei nuovi dati. Chiedo che l’eccezione sia respinta!».
L’avvocato, calmo ma terreo, attacca come mai prima: «Dubitiamo che siano genuini questi dati! Ci è stato detto che erano tutti, e non è così: vorremmo averli tutti davvero! Non solo quelli sugli slip. È il gioco delle tre carte!». La Ruggeri, tombale: «Sento qui, oggi, accuse al limite della calunnia! Chiedo da subito la trasmissione al mio ufficio dei verbali di questa seduta!». Salvagni si gira con un sorriso beffardo verso i giornalisti: «Vedete? Mi vuole denunciare. Ci manca solo questo, ormai!».
Aula magna del Tribunale. Nell’ultima udienza dell’anno del processo Yara succede davvero di tutto, a metà fra dramma e commedia, tra momenti di tensione e involontari siparietti ironici. Breve sintesi: arrivano nuovi dati sugli esami di “Ignoto uno”, la persona che avrebbe lasciato tracce sui vestiti della ragazzina uccisa, che saltano fuori nel dibattimento (fuori tempo massimo, ma ammessi dalla Corte), sul reperto più importante del processo (il famoso slip). Ci sono relazioni che non tornano, firmate dagli stessi autori ma discordanti fra di loro. Si verifica addirittura un inedito sciopero del controinterrogatorio da parte degli avvocati, poi viene ventilata una minaccia di denuncia da parte del pm (l’avete appena letta). Si produce persino un involontario momento-commedia all’italiana dell’ufficiale supervisore dei Ris di Parma, da cui si evince che – non solo per il processo Yara – i laboratori dei Ris per fare gli esami del Dna usavano spesso dei kit «tecnicamente scaduti», come gli yogurt (ma, in qualche modo, rigenerati!). Certo: era – e si sapeva già – una delle udienze chiave del processo. Era anche il terzo e ultimo atto dell’interrogatorio dei cosiddetti “capitani” – Nicola Staiti e Fabiano Gentile – che hanno condotto gli esami più delicati sul reperto più delicato, il cosiddetto G20 (ovvero la porzione di mutandina su cui è stato trovato il Dna di “Ignoto numero uno”). A inizio seduta prende la parola Salvagni, teso, corrucciato, nervosissimo: «Volevo mettere un punto fermo molto importante perché questo è un processo dna-centrico, è il fulcro nodale del processo». Su questo, almeno, non c’è dubbio: i cosiddetti «dati grezzi» di cui si discuteva erano stati richiesti la prima volta il 27 aprile 2015, poi di nuovo il 17 luglio (con l’udienza dell’ammissione delle prove), e infine l’11 settembre, quando la presidente Bertoja – malgrado una strenua opposizione della pm Ruggeri – aveva prescritto che il Ris produccesse «tutti i dati disponibili». Come mai tanta resistenza dell’accusa? Mistero. Spiega Salvagni: «I dati grezzi sono come una radiografia, non il referto. La difesa ha bisogno della radiografia!». E aggiunge: «Abbiamo impostato il controesame sulla base di quel che ci ha stato detto. Quei dati hanno determinato le scelte difensive di questa fase istruttoria. E cosa è successo? Il caos – spiega l’avvocato -, consulenti che producono dati alla rinfusa, gli stessi autori non riuscivano a rispondere». Infine l’ultimo affondo: «In sede di controesame, a domanda della corte, i due capitani avevano ribadito: “In quel cd ci sono tutti i dati grezzi”. Tutti!». E questo, effettivamente, è a verbale. Infatti il 26 ottobre era arrivato il dischetto, e poi era iniziata una danza processuale senza precedenti. I due capitani avevano detto in aula di non essere in grado di rispondere alle domande sul numero e sulla qualità degli esami, poi avevano chiesto una sospensione, l’avevano ottenuta, erano tornati in una nuova udienza, poi avevano lamentato la difficoltà di reperire i dati (nel loro stesso archivio!) spiegando che erano «confusi con quelli di altri casi», poi domandato una nuova sospensione, e infine ottenuto di essere risentiti una terza volta (!) rispondendo a domande scritte, e riservandosi di fornire «nuovi dati grezzi qualora li trovassimo» (e così è stato). Era possibile che dopo aver avuto bisogno di sei mesi per reperire quei dati, venisse loro concesso di produrne altri? Questa era la domanda che tutti si facevano. Ebbene, la presidente Bertoja, dopo aver riunito la Corte ieri ha detto di sì. Ieri i due capitani sono ricomparsi per la terza volta sul banco dei testimoni, spiegando che pochi giorni fa, il 4 dicembre, avevano prodotto la loro relazione scritta e il loro supplemento di dati. Prima sorpresa: «Su 15-20 nuovi ferogrammi prodotti» (quantificazione fatta da loro), si scopre che ben 14 riguardano proprio lo slip. Una incredibile anomalia, statisticamente («il quattrocento per cento in più!» dice Salvagni indignato). E Staiti e Gentile devono esserne consapevoli, se è vero che per attutire la portata di questo dato dicono: «Sul reperto G-20 ci sono 9 tracce in più su 18». Un piccolo escamotage: per dare quel numero i capitani computano sia amplificazioni che ripetizioni. Ma i casi sono due: o sono 9 nuove tracce su 13 esami (senza le ripetizioni), oppure sono 14 su 18 (in tutto): il dato di partenza è sempre 4. Salvagni non ci sta: «La difesa sta urlando la necessità di svolgere al proprio meglio il mandato difensivo. Se questi dati sono stati prodotti nella loro indagine, e se vogliamo ammettere che fossero presenti, perché non sono stati forniti? Perché regnava questo caos nei Ris? Vogliamo davvero credere che ci fosse? È evidente che questo è stato un sistema per far vedere alcune cose e non altre». Anche l’avvocato Camporini è duro: «L’integrazione è possibile solo se non si eccedono le circostanze prospettate. Questo non può essere ammesso mentre c’è una consulenza tecnica in corso». Ed è lo stesso difensore ad annunciare il colpo di scena: «Noi non ci fidiamo: non formuleremo domande nel controesame – annuncia – perché le risposte sarebbero inquinate». Così, in un clima surreale i due capitani illustrano i loro dati rispondendo alle domande della Bertoja. Con qualche discrasia curiosa. Nella loro relazione avevano detto di aver trovato sullo slip L’aplotipo Ypsilon. Che è importantissimo – soprattutto in questa indagine fondata su una indizio parentale – perché è quello con cui si trasmette il gene paterno. Ma nella sintesi della nuova relazione si scopre che su quel reperto i capitani scrivono di non aver usato il kit che individua «l’Ypsilon». Nell’intervallo mi avvicino a Stati: “Come è possibile?”. La Pm, seduta davanti a lui, gli fa cenno «No-No» con la matita. Lui la guarda, si ferma, pare imbarazzato: «Mi spiace... ma... non sono autorizzato a rispondere». Chiedo al consulente della difesa, Marzio Capra: «Posso solo fare un’ipotesi: l’esame sull’Ypsilon lo hanno fatto su un altro reperto, e poi, sovrapponendo i risultati, lo hanno attribuito anche all’altro campione». Il Dna di “Ignoto uno” è stato quindi ricostruito come un puzzle? Mistero. In aula la Ruggeri chiederà proprio di quell’Ypsilon, e Staiti le risponderà: «Abbiamo fatto un errore materiale nella prima relazione». Ma se è vera la seconda relazione e non la prima, la domanda allora è: come mai non fare quell’esame così cruciale proprio sul campione considerato più importante? Altro mistero. La Corte si riunisce alle 12. Poi la Bertoja annuncia che ammette l’integrazione dei capitani: «Non sono dati nuovi, ma una nuova produzione di dati già elaborati». Sembra finita. Ma alle 13.30 arriva il tenente colonnello Marco Pizzamiglio, tenente colonnello del Ris. Salvagni fa una domanda che all’inizio pare folle: «Le risulta che i polimeri utilizzati per i test possano essere scaduti?». Risposta incredibile dell’ufficiale: «Sì, può capitare». Possibile? Spiega Pizzamiglio. «Le scadenze vengono riviste perché le date indicate dai produttori sono strette, per vendere di più. Se scadono noi ricontrolliamo». A questo punto l’avvocato incalza: «Nel caso specifico avete usato lotti con polimeri scaduti?». Risposta del Ris: «Allora non avevamo i controlli assoluti di oggi, ma che li facevamo su ogni singolo caso facevamo un controllo. Tante scadenze non sono reali... E poi avevamo così tante ripetizioni nel risultato che il problema si poneva». Chiede Salvagni: «Si può sapere su quali campioni sono stati utilizzati i lotti scaduti?». E l’ufficiale: «No, l’operazione del kit non viene tracciata, non è possibile saperlo». Ma la scena più divertente dopo tanta tensione è questa. Pizzamiglio è in aula perché è il firmatario del rapporto sul Dna, il più importante del processo. Su questo deve essere interrogato. Ma quando arriva la prima domanda, rivela: «Io però non ho visto nulla: né i reperti, né il corpo, gli esami, nulla. Il mio compito era solo di valutare che la relazione fosse chiara e coerente». E come poteva farlo, chiede l’avvocato? La risposta, capolavoro di burocratese. L’ufficiale è spavaldo, pare “il dentone” di Alberto Sordi: «Non ho visto nessun reperto e nessun esame, è vero: ma pur non avendoli visti sono perfettamente in grado di dare un giudizio». E come? «Io non vedo i reperti. Ma leggo, e giudico se ci sono fattori coerenti!». Risate in aula. Amen. Tra kit, alleli, polimeri e Y, Massimo Bossetti esce con faccia attonita: si prepara al suo Natale in carcere.