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 2015  dicembre 12 Sabato calendario

E ora chi paga?

La grande crisi ci ha insegnato che quando una banca va a fondo, sono guai. Nel mondo non c’è ancora accordo pieno su come evitare questi guai ma, soprattutto, su chi deve pagarne il conto quando accadono.
La contraddizione che in Italia si mostra all’estremo nel Movimento 5 stelle – ieri «paghino i banchieri», adesso «paghi lo Stato» – ne è uno degli aspetti.
Le banche sono diverse dalle altre imprese: sono utili a tutti, però anche pericolose. Si sa da secoli che, quando una banca fallisce, azzerare il capitale dei suoi azionisti non basta ad assorbire tutte le perdite generate. Chi altro paga allora? Prima del 2007-8, il problema era stato sottovalutato e non di poco. In Italia, ma parliamo di quarant’anni fa, il crack Sindona fu pagato stampando altre lire.
Solo a fatica è emerso in Europa il criterio di cui oggi discutiamo per le 4 banche locali che hanno spinto il nostro governo a intervenire. Prima che intervenga lo Stato, usando soldi di tutti, occorre far contribuire i detentori di obbligazioni «subordinate» (che non hanno precedenza nel ripartire i resti della banca fallita).
A fatica, sì, perché in Irlanda non si è ancora smesso di discuterne a parti invertite.
Nel 2010 il governo di Dublino, accortosi dell’enormità delle perdite delle banche, intendeva accollare una parte dell’onere agli obbligazionisti «subordinati», in gran parte esteri. La Bce glielo impedì giustificandosi con ragioni di stabilità di tutta l’area euro.
Di conseguenza, il dissesto delle banche irlandesi è stato pagato per intero, in tasse e tagli alle spese pubbliche, dai cittadini del Paese, nella spropositata misura di circa 9000 euro a persona. Quel governo, che sugli azzardi della finanza aveva chiuso gli occhi, fu poi spazzato via dal voto nel febbraio 2011. Persiste tuttavia l’impressione che i creditori esteri l’abbiano scampata.
Non è facile mettere d’accordo tutti su quale sia la scelta più equa. In cambio degli aiuti europei, a Cipro sono stati tosati anche i depositanti sopra i 100.000 €, quasi tutti stranieri extra-euro, molti russi; non si registrano contraccolpi. Lo scopo principale delle innovazioni è dissuadere chi dirige le banche dal commettere imprudenze.
Fin qui, i banchieri in difficoltà hanno potuto ricattare i governi: se cadiamo noi, soffre un sacco di gente. Dentro l’area euro, le nuove regole sui fallimenti decorreranno da gennaio ma non basta. Tutto un sistema nuovo, omogeneo, va costruito per ridurre i rischi di crac e circoscriverne le conseguenze. Nel farlo, si inasprisce la lotta per la supremazia tra i poteri bancari nazionali.
La tentazione è per ciascuno di ributtare i problemi oltreconfine. In Italia si parla male di un olandese della burocrazia europea, il vicedirettore per gli aiuti di Stato Gert-Jan Koopman. I giornali tedeschi sospettano magagne nascoste nelle banche italiane. Il caso più grave per tutti è il no della Germania a un’assicurazione unitaria dei depositi sotto i 100.000 euro.
La Bce e la Commissione europea ritengono che le attuali garanzie nazionali per tutti i conti in banca fino a quella cifra possano divenire poco credibili in Paesi in difficoltà (vedi fuga di depositi dalla Grecia nella primavera scorsa). Dovrebbero quindi essere appoggiate a un meccanismo comune. Berlino blocca tutto.
Persiste il vizio tedesco di scorgere i problemi dell’euro solo oltre i propri confini, e concentrati nella finanza pubblica. Invece quanto a banche la Germania non ha nulla da insegnare, 238 miliardi spesi per sostenere le sue, con disavventure anche recenti (Hsh Nordbank). E una tutela piena ai depositanti piccoli e medi può togliere strumenti di ricatto dalle mani dei banchieri imprudenti.