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 2015  dicembre 12 Sabato calendario

La Leopolda, la grande Leopolda, la Leopoldissima

E dunque: la Leopolda, la grande Leopolda, la Leopoldissima. Buio in sala e con Sala, sotto le volte dell’antica stazione granducale leopoldini e leopoldotte, di remota e nuova accoglienza, si salutano con brio sotto i maxi frammenti di Saint-Exupéry, piuttosto impegnativi (“L’uomo scopre/se stesso/ quando si misura/ con l’ostacolo”) e vanno a occupare i soliti tavoli bianchi con al centro un melograno spaccato, due grissini, un paio di limoni, una pigna. Odore di cibo precotto e impentolato. Però non male. C’è un’area ristorante separata, riservata e vigilata. Saranno i vip, la sicurezza ricrea e giustifica l’oligarchia. Di fronte appare anche stavolta “la Leopolda dei bambini”, una dozzina alle 21, “i gonfiabili di Renzi” li chiamava il piccolo Tommaso Peroni, figlio di volontario della prima ora e record-baby condotto qui ad appena 30 giorni.
La cena e poi il resto della serata, cioè la memoria di sè e quindi l’auto-celebrazione, pratica invero sconosciuta ai padri democristiani e comunisti, ma qui prevista al massimo grado della tecnica inventiva e della più conveniente credulità. E comunque: la Leopolda. “Lo spirito della Leopolda”, “Generazione Leopolda”, “stile Leopolda” secondo Renzi, “l’onda perfetta chiamata Leopolda” come l’ha designata Boschi.
La politica, specie quella post- ideologica della tardo-modernità, si nutre di miti turbo-light e così in appena sei anni questo evento stagionale, la Leopolda appunto, è divenuta il mito fondativo del renzismo. Una sorta di favola edificante che accredita un potere, ormai, con la riproposizione del suo inizio. Era il 2010 e Renzi, più rotondetto di oggi, portava ancora golfini viola e il ciuffo quasi a banana. Da quando è Palazzo Chigi tutto per lui è “storico” e a volte anche “epocale”, figurarsi quella prima lontana Leopolda, “Prossima fermata, l’Italia” era il motto. Venne poi il “Big Bang”, e quindi “il meglio deve ancora venire” e poi ancora “il futuro è solo l’inizio” e così, dagli e dagli, dopo tanto tempo il messianismo – consapevole o meno che fosse, o che sia pure in questa edizione – ha rioccupato un posticino nell’immaginario italiano.
“Abbiamo dimostrato che nulla è impossibile”. Come pure: “Abbiamo scalato la montagna”. Di questa specie di ascesi ha reso ieri pacata testimonianza il video “Terra degli uomini”, con omonima canzone di Jovanotti a far da colonna sonora, volti radiosi di giovani, gioia, risate, consenso visivo, bambini, indispensabile risorsa narrativa anche negli spot delle assicurazioni, ed emozioni di futuri ministri. Ma lo stesso palcoscenico della stazione, con i suoi antichi bagagli e valigie di cartone, scarpe di bimbo e scarponi deformati, salvagente, carte geografiche arrotolate, alludeva al viaggio di Renzi e dei suoi, “un gruppo di infaticabili ottimisti” li ha battezzati tra gli applausi l’euforico presentatore ricordando gli esordi e gli sviluppi della Leopolda.
Sull’Unità il direttore Erasmo D’Angelis l’ha presa un po’ più alla lontana: l’assedio di Carlo V a Firenze, anno 1529, “e 481 anni dopo Firenze fu teatro di un altro assedio, quello dei renziani alla fortezza della politica italiana, a potenti e vicepotenti, all’intero network della nomenklatura che occupava lo Stato in maniera anche feudale”. Perché senza necessariamente sorriderne, da che mondo è mondo, e potere è potere, i miti hanno pur sempre bisogno di mitografi, e l’assedio erasmian- renziano si concluse “con il capovolgimento della storia”, eccotela lì!
La storia collettiva e quella individuale di Benedetta Scagnelli che qui alla Leopolda anni fa ha trovato l’amore e s’è sposata; o di Francesca Magnelli che alla liturgia del renzismo s’è portata an- che il cane, Yara.
Lettere che scorrono in stile razionalista dietro la “non-presidenza”; sedie laccate nere e scrostate, microfono vintage; tanti libri per terra che forse si saranno un po’ offesi della riduzione a puro e polveroso ornamento; video animati tipo Ballarò; clip trionfalista sull’Expo, brevemente impallatasi in sala stampa mentre parlava Sala, un po’ monocorde e a disagio senza cravatta, ma poi ritratto misteriosamente abbracciato a Raffaella Carrà e spiritosamente ripreso con una gamba nella bocca di un coccodrillo, si spera impagliato – che s’ha da fare per farsi votare.
Un grazioso mappamondo tipo Pimpa fa da logo a questa sesta Leopolda, anch’essa un brand da esportazione: censite già una “Leopolda rossa”, una “Leopolda tricolore”, una “anti- Leopolda”. Belle e brave le deputate e amministratrici, Soncini al fianco del capo, che tende un po’ a prevaricare, e Malpezzi sulla scuola; svelto e simpatico il sindaco Bonajuto. Ignorata la recente canzone di Edoardo Bennato: “Al gran ballo della Leopolda”. Il ritmo è allegro e a suo modo un ulteriore riconoscimento. Nel frattempo l’estetizzazione della politica ha fatto un altro passo in avanti.